Prima di ogni altra considerazione, occorre considerare la realtà entro cui si attua l’Ayurveda in Occidente; innanzi tutto l’Ayurveda non ha più la chirurgia, neppure in India, anche se da qualche parte è possibile trovare chi ancora soprattutto a livello ortopedico e traumatologico, qualcosa pratica, la realtà è che la chirurgia non c’è più; in secondo luogo, ad esclusione dell’India, non abbiamo ospedali ayurvedici (credo che anche l’esperienza dell’Ospedale ayurvedico di Londra sia stata archiviata), quindi nessun Pronto Soccorso.
Da questi due dati si ricava una situazione di fatto, per cui l’Ayurveda si deve confrontare con limiti molto precisi, che ne contornano l’ambito entro cui può muoversi in Occidente.
Stabilito questo, occorre guardare ad altri aspetti del problema, perché abbiamo da una parte un sistema terapeutico radicato da secoli, e dall’altra qualcosa - e dico qualcosa perché ha senso dire così - che è giunto in Occidente, soltanto qualche decennio fa, meno di un secolo. Che ci fossero stati degli studiosi o degli intellettuali che si erano interessati dell’Ayurveda, soprattutto come aspetto della cultura medica, nei periodi precedenti, ha scarso rilievo. Ma quel che occorre soprattutto considerare è come essa sia giunta, perché lì nasce un vizio di forma che ne condiziona tuttora la sua identità. L’Ayurveda infatti giunge in Europa con la New Age, con alcuni personaggi sulla cresta dell’onda (Jane Fonda, i Beatles, Richard Gere) che faranno conoscere i guru del tempo (Maharishi, Osho, Sai Baba). L’Ayurveda giunge così insieme all’India mitizzata dalla New Age, ma meglio sarebbe dire giunge qualcosa dell’Ayurveda, una sua parte, la parte più legata alla filosofia che si poneva come alternativa allo stile di vita del consumismo occidentale. E, negli anni immediatamente successivi a quella epopea, Ayurveda, Yoga, Meditazione, si propongono proprio come luoghi, dove andare a riprendersi dai ritmi che la società impone e dallo stress che ne consegue. Separati e alternativi alla società. Il vizio di forma di cui parlavo è questo; aver dato un’immagine che collocò l’Ayurveda come un’alternativa ad una concezione di vita, intesa soprattutto come possibilità di rigenerarsi periodicamente dalle fatiche del quotidiano. Per questa ragione si ebbe la diffusione di alcune pratiche dell’Ayurveda, a cominciare dal massaggio, così come si introdusse la pratica dello Yoga, spesso senza conoscere nulla della sua teoria. Soltanto nella generazione successiva, grazie a tanti autori di testi, e soprattutto all’opera di Maharishi, si ebbe una visione più completa dell’Ayurveda, e dunque anche delle sue offerte, non più limitate all’esercizio di alcune sue pratiche. Tuttavia per molte persone ancora oggi l’Ayurveda è considerata un valido aiuto per ristabilirsi durante un lungo soggiorno in qualche centro lontano dalla città, ma non è, e, secondo loro, non potrebbe diventare, uno stile di vita.
Tuttavia, da questo procedere verso l’Occidente, nel segno della New Age, il vizio di forma ha connotato l’Ayurveda alla stregua di altre pratiche, che in quel tempo sono assurte a fama, prive talvolta di qualunque impianto metodologico o di qualunque storia, cosìcché contestualmente è maturata una diffidenza da parte della scienza e della medicina, e, malgrado fin dal 1978, l’Organizzazione Mondiale della Sanità, nella dichiarazione di Alma Ata sull’assistenza sanitaria primaria, abbia conferito all’Ayurveda un riconoscimento ufficiale, la diffidenza non è molto mutata, neppure dopo le risoluzioni del 2003 e poi del 2009 relative alla necessità di regolamentare le medicine tradizionali, come l’Ayurveda, all’interno delle politiche sanitarie nazionali.
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