domenica 8 marzo 2020

Mi rivolgo a quanti in questi anni si sono accostati all’Ayurveda, alla ricerca di uno stile di vita più adeguato alla loro costituzione psicofisica, sia come prevenzione, sia per risolvere alcuni annosi problemi che rendevano precaria la loro qualità della vita. In questo particolare momento di crisi determinata dalla diffusione di un virus, che preoccupa in modo quasi capillare e che colpisce un elevato numero di persone, mi sembra opportuno ricordare quanto l’Ayurveda ci insegna.


Un virus può essere contratto quando trova un campo ospitale, ovvero quando entra in relazione con un sistema immunitario deficitario, pertanto la prima importante opera che ognuno può fare è sostenere il proprio sistema immunitario. E, a questo proposito vorrei sottolineare che non si deve cadere preda del panico, infatti preoccupazione eccessiva e paura che può esitare nel vero e proprio panico, consuma energia nella mente, che, a sua volta, indebolisce le normali difese immunitarie: la percezione di non poter far fronte ad una situazione viene trasmessa dalla mente al corpo, e diviene veramente difficoltà di far fronte ad un pericolo, che viene stimato troppo potente per essere evitato. 
Quindi la prima operazione da mettere in atto non è il timore di essere sopraffatti, ma la preoccupazione normale di aumentare le difese dei confini del proprio corpo. Come si può fare questa operazione? Un corpo per mantenersi in salute ha bisogno di un’alimentazione sana, adeguata alla propria costituzione psicofisica, di una buona digestione, di un intestino che funzioni regolarmente. Quindi la scelta degli alimenti, poiché sostanzialmente noi siamo quello che mangiamo, deve essere rigorosa in questo periodo, ovvero pur mantenendosi nell’ambito di scelte che ognuno nel tempo ha ritenuto idonee per se stesso, deve essere ricca di nutrienti e nel contempo leggera, meglio in questi casi, una dieta che si distribuisca nella giornata in più momenti di consumazione, una prima colazione, una merenda, un pasto a pranzo, una merenda, una cena, in modo tale da non appesantire lo stomaco; abituarsi a favorire la digestione assumendo tisane a fine pasto, di finocchio, cumino, coriandolo, e soprattutto zenzero. L’assunzione di bevande calde, anche acqua, nel corso della giornata, favorisce il fuoco gastrico, per cui già da pochi minuti dopo il risveglio è buona cosa assumere acqua calda con limone spremuto, e continuare a berne durante la giornata, fino a poco prima di coricarsi. La regolarità dell’intestino deve essere garantita, e, poiché siamo alle soglie della primavera, è importante operare una pulizia profonda, ricorrendo all’assunzione di un qualche idoneo prodotto, che potrebbe essere assunto ad ogni fase lunare (luna piena, quarto di luna decrescente, luna nera, quarto di luna crescente), onde evitare fastidiosi ingombri, che sono depositi di tossine.
La Vitamina C è un nostro potente alleato e in questo periodo probabilmente non è sufficiente la sola assunzione attraverso il cibo, poiché come è noto la Vitamina C non si deposita nel corpo, pertanto è bene ricorrere a qualche integratore di questa preziosa vitamina per il mantenimento delle difese immunitarie (in farmacia ve ne sono di differenti tipologie e ognuno saprà operare la propria scelta).
Sono altresì necessarie alcune pratiche igieniche preventive, ovvero l’abitudine di lavarsi bene le mani deve trovare in questo momento  un di più di frequentazione, soprattutto ad ogni rientro in casa o comunque nei luoghi esterni deputati, dopo un momento di necessaria utilizzazione delle mani stesse, a questo proposito, vorrei aggiungere che l’utilizzazione di guanti per aprire porte di uffici o da utilizzare sull’autobus, e soprattutto nel trattare con i cassonetti dei rifiuti, sarebbe una buona norma. Altrettanto è da considerare di mantenere le vie aeree pulite e sufficientemente umide, pertanto la raccomandazione di utilizzare ogni mattina la pratica del lavaggio profondo del naso (jala neti) e di tenere umettate le narici con olio di semi di sesamo o di lino o di mandorle, e tale operazione con il delicato uso di un cotton fioc dovrebbe essere ripetuta nel corso della giornata. Infine il necessario riposo, seguendo il ritmo della natura, svegliarsi presto e andare a dormire presto, il sonno regolato dalla notte, è un potente alleato per la nostra salute. Infine una buona pratica quotidiana di Yoga e di meditazione.

Un caro saluto  a tutti

martedì 8 ottobre 2019

Introduzione al corso di YOGA terapeutico




1.                 
Nella massiccia adesione alla pratica dello Yoga, declinata in tutte le sue forme, più o meno consone, e persino più o meno legittimate dal chiamarsi con tale nome, si è fatta strada in molti proponenti “maestri” e in molti dei loro utenti, anche l’idea che lo Yoga possa guarire da tutti i mali, fisici e non, quasi fosse una sorta di panacea universale.
Si leggono parole a proposito di questa idea, che perplimono per la superficialità con cui vengono utilizzate, come se la pratica dello Yoga potesse guarire da mali del corpo e della mente attraverso pratiche, talvolta ridotte alla mera frequentazione di qualche seminario di pochi giorni di durata. Poco ci manca che venga proposto un qualche estratto da esibire alle fiere come elisir di eterna giovinezza.
Così, a costo anche di diventare impopolare, mi sento di esprimere con molta chiarezza che la pratica dello Yoga non è una medicina, e non cura nessuna malattia, e d’altra parte basta guardarsi intorno con occhio critico per comprendere quanto sia vero, altrimenti i suoi adepti sarebbero quanto meno immuni dalla più parte delle malattie, almeno da quelle più banali come l’influenza, il raffreddore, la tosse e quant’altro, quanto è possibile invece riscontrare durante una lezione di Yoga.
La pratica dello Yoga, senza innestarsi in un adeguato stile di vita e senza l’ausilio di opportune terapie, come insegna l’Ayurveda, che dello Yoga, attinente alla Spirito, è la componente corporale – due facce della stessa medaglia – da sola può veramente poco in termini di risanamento dai mali fisici, forse qualcosa di più può fare per il disagio emotivo, ma anche in questo caso lo stile di vita deve essere il quadro sicuro in cui inscrivere la pratica, e non possiamo neppure sottacere l’insegnamento chiave dell’Ayurveda ovvero che mente e corpo sono un’unità inscindibile, e neppure si può trascurare che i mali prima di manifestarsi nel corpo sono nati nella mente.
Se dunque la pratica Yoga può aiutare la mente a ritrovare il suo equilibrio, certamente il corpo ne avrà beneficio, soprattutto se questo nuovo impulso della mente indurrà a vivere secondo uno stile di vita salutare. Tutto questo percorso non può avvenire immediatamente, e sebbene si possano avvertire dei benefici anche dall’iniziale pratica di Yoga, il risultato di ottenere un migliore stato di salute non sarà certamente immediato, ma necessita di continuità: la pratica dello Yoga non può essere occasionale, affidata a qualche fine settimana in qualche luogo di fascinazione naturale, per quanto si debba ammettere che la frequentazione di scenari naturali sia beneficio per chiunque, a prescindere che essi siano goduti compiendo serene passeggiate o standosene comodamente sdraiati davanti all’orizzonte aperto o compiendo pratiche Yoga o anche semplici esercizi fisici.

2.             
Dovremmo forse meglio chiarire di cosa si parli quando si parla di Yoga, soprattutto quando se ne parla in relazione ad una sua funzione terapeutica; oggi il termine è utilizzato in modo talvolta decisamente inappropriato per indicare pratiche che con Yoga non hanno nulla a che fare, e il fatto stesso di dover specificare con un ulteriore appellativo, è già indicativo di una deformazione, in quanto la pratica Yoga di per sé non avrebbe bisogno di nessuna specificazione. Yoga della risata, ad esempio, per quanto possa essere gradevole e di liberazione di emozioni represse, con lo Yoga ha ben poco a che fare; alla stessa stregua immaginare che Yoga possa essere pratica ascritta fra le discipline sportive o parasportive, è travisare completamente il senso dello Yoga, che di per sé non può essere competizione, neppure con sé stessi: la pratica dello sport prevede la competizione o anche semplicemente la ricreazione; Yoga non prevede competizione, anche se ahimè oggi molti si espongono e si propongono con questo intento, e non è ricreazione, anzi è impegno.
È sufficiente scorrere i post di un qualsivoglia social network per rendersi conto di come la parola Yoga sia piegata alle più diversificate proposte, congiunte all’offerta di soggiorno relax in SPA o in agriturismo o in luoghi naturali di grande pregio e piacevolezza, come sia congiunta all’occasione di festività come il Capodanno piuttosto che il Ferragosto, insomma uno specchietto buono per tante allodole, per non parlare dell’ultima proposta che ho visto comparire che è l’AperiYoga.
Yoga non è una medicina, pertanto non guarisce; può essere un valido aiuto, questo è indubitabile, ma non si può prescindere da uno stile di vita sano, e per questo si avvale dell’Ayurveda, tanto che si può, a ragion veduta affermare che Yoga e Ayurveda sono due facce della stessa medaglia, la prima volta al sostegno soprattutto della mente e la seconda soprattutto del fisico. Separare questi due aspetti della medesima filosofia di vita, come ormai avviene solitamente, è già di per sé disconoscere la funzione dello Yoga. 
L’esercizio fisico che lo Yoga, nella sua componete di Hatha Yoga, ovvero la pratica con asana e tecniche di respiro, propone, ha un grande potere di riequilibrio psicofisico, che possiamo a buon titolo chiamare terapeutico, ma non può prescindere dalla cura del corpo, da uno stile di vita appropriato; soltanto se integrato all’interno di un percorso, Hatha Yoga può avere prodigiosi effetti su alcuni organi interni, su alcune condizioni del corpo fisico, su alcune problematiche di tipo psicosomatico, e soprattutto sull’apparato locomotore. Tuttavia anche questo percorso terapeutico non ha nulla di miracoloso, non ha magici effetti di immediata percezione è, ed è bene ribadirlo, un percorso che richiede tempo e paziente dedizione; il miglioramento che può riscontrarsi in una parte del corpo fisico, si ottiene lentamente con applicazione, e talvolta, è utile anche questo ribadirlo, con applicazione quotidiana, non certo ottenibile attraverso un fine settimana o una settimana intera nel luogo delle meraviglie, dove si può stare certamente molto bene, imparare anche molte buone cose, ma non altrettanto certamente ottenere risultati miracolosi, come molti immaginano o si aspettano, restando poi, nel prosieguo delusi e rammaricati per la spesa inutilmente sostenuta, e contribuendo ad aumentare la schiera di quanti sostengono che praticare Yoga non serva a nulla. 

3.           
Prendendo in mano il più antico testo di Hatha Yoga, Hathapradipika di Swatmarama[1], in uno dei prime asana che vi sono descritti, Matsyendrasana, ci si imbatte in questo commento...la pratica di Matsyendrasana stimola il fuoco gastrico; si tratta di un’osservazione sulla finalità di un asana[2] oltre che sul piano meramente osteo-muscolare, sul piano fisico; poco dopo, descritta l’esecuzione di Mayurasana, l’autore aggiunge che questo asana...elimina rapidamente tutti i disturbi della milza e dello stomaco, preserva dai disordini degli umori (gastrici), alimenta il fuoco gastrico, difende dagli eccessi di cibo e persino dai veleni. Sono due esempi, che indicano quanto, fin dalla prima stesura di testi a noi noti, si ponesse di attenzione agli effetti che alcuni asana potevano avere anche per un corretto funzionamento degli organi interni; i suggerimenti che troviamo sparsi in buona parte delle descrizioni degli asana o delle tecniche di pranayama, sono per lo più indicati nel rispetto di quella che era l’anatomia e la fisiologia ayurvedica. Ed è di particolare interesse che all’inizio della V lezione si sottolinei la necessità di eseguire con correttezza i vari esercizi, sia di Hatha Yoga sia di Pranayama, fin qui proposti, avvertendo che...colui che pratica erroneamente lo Yoga può contrarre disturbi di Vata. Un’avvertenza che dovrebbe essere ben tenuta in considerazione ancora oggi, insieme al successivo consiglio di chiudere le sessioni di pratica con Shavasana, in quanto…assumendo (questa) posizione la muscolatura si rilassa totalmente e di conseguenza il Prana fluisce liberamente; il Prana è il respiro vitale, l’essenza stessa della vita.
Il linguaggio squisitamente legato alla cultura in cui erano state prodotte sia l’Ayurveda sia lo Yoga non verrà superato fino alla pubblicazione del libro di Iyengar, pubblicato a Londra nel 1964[3], e scritto per un pubblico che era ormai al di fuori dell’India, nel mondo, dove la pratica di Yoga aveva cominciato a diffondersi, e per questa stessa ragione Iyengar nella prefazione sentì di dover scrivere che...tutti i commentari antichi sullo Yoga hanno sottolineato che è essenziale lavorare sotto la direzione di un Guru (maestro) e, sebbene la mia esperienza provi la saggezza di questa regola, in questo libro ho tentato, con tutta umiltà, di guidare il lettore – sia maestro che studente – ad un metodo corretto e sicuro per imparare le posizioni (Asana) e le tecniche respiratorie (Pranayama). L’autore era consapevole sia che la pratica dello Yoga aveva ormai travalicato i confini dell’India, sia che essa aveva inevitabilmente cominciato a diffondersi al di là della formazione tradizionale all’interno dell’India. Per questo dopo una lunga dettagliata esposizione della filosofia che sottende la pratica dello Yoga, e dopo aver dato i contenuti base dello stile di vita, che deve accompagnare questa pratica, l’autore comincia a descrivere le singole asana e per ognuna di queste fornisce i benefici, che riguardano sia la struttura osteo-muscolare, sia il corpo nella sua interezza, sia la componente mentale.
Il libro di Iyengar uscì in traduzione italiana nel 1993, quando si cominciava anche nel nostro paese a confrontarsi con le nuove filosofie orientali, con la Medicina tradizionale cinese, con l’Ayurveda e con la pratica Yoga. La prima traduzione italiana di Hathapradipika risale al 1970, a cura di una piccola coraggiosa casa editrice di Torino, Savitry, ma il libro ebbe una diffusione limitata e restò prezioso documento di una ristretta cerchia di cultori; nel 1975 fu pubblicato per conto di Mursia, il testo di A. Van Lysebeth, Imparo lo Yoga, stampato a Parigi sette anni prima e che corredava la descrizione dell’esecuzione degli asana con indicazioni sui benefici che esse potevano produrre sugli organi interni e sulla salute del corpo nella sua interezza, dove fra l’altro si trova una bellissima analisi relativa all’adattamento della pratica fuori dall’India…l’occidentale che consulti la letteratura sullo Yoga può essere frastornato dalla divergenza di idee fra gli autori, sia per quanto riguarda la frequenza che varia da una a più esecuzioni quotidiane, sia per la durata consigliata che oscilla da qualche secondo fino a venti minuti. Dov’è la verità, chi sbaglia? Nessuno. Da un certo punto di vista tutti hanno ragione. Basta capirsi. Vi sono vari modi di praticare lo Yoga. Lo yogi indiano pratica diverse volte al giorno e mantiene le posizioni fino a venti minuti. Ma l’adepto occidentale che dispone di solo mezz’ora al giorno da consacrare allo yoga dovrà riservare alle posizioni in media due o tre minuti. Più di quaranta anni fa, Van Lysebeth aveva colto quale profonda differenza si stesse definendo fra Yoga praticato in India dagli Yogi e Yoga praticato in Occidente da adepti, spesso come aveva indicato Iyengar, anche senza alcun maestro.

4.          
Da questi stimoli editoriali si muove la concezione di poter utilizzare la pratica Yoga in forma mirata, finalizzata a ristabilire l’equilibrio psicofisico in una parte del corpo o in un suo ambito precipuo, concezione che a sua volta ha prodotto una interessante bibliografia, con alcuni pregevoli testi, che giunge fino ai libri, che allo stato attuale rappresentano una summa, di Gabriella Cella e di Amadio Bianchi. La ragione più profonda di scegliere sequenze di Hatha Yoga in forma definita, o meglio sarebbe chiamare mirata, per raggiungere un preciso obiettivo, consiste tuttavia proprio in quell’aspetto di differenza che van Lysebeth aveva colto, ovvero che bisogna restringere la propria attività in un tempo limitato: se il tempo è poco, meglio è dunque concentrarsi nel raggiungimento di un obiettivo.
La pratica di una sequenza mirata alla risoluzione di un problema, condotta con perseveranza, se inserita in un adeguato stile di vita, può divenire un valido aiuto, può in alcuni casi offrire una soluzione definitiva ad un problema; tuttavia ad essa non si deve chiedere più di quello che può dare, per cui non si deve sopravvalutarne il benefico effetto fino ad immaginare che possa essere la panacea per ogni male o l’elisir di lunga vita. Yoga chiede pazienza e dedizione, solo a queste condizioni fornisce un contributo alla stabilità psicofisica.
La ricerca di una sequenza idonea alle problematiche individuali, che è naturalmente una specializzazione all’interno di un percorso di yoga, non può essere frutto di immaginazione o di scelte condotte da autodidatta, ma deve essere affidata a chi ha una conoscenza della pratica di Yoga e dell’Ayurveda, che ne è il complemento indispensabile quando si tratta della salute del corpo.





[1] Il testo apparve in India nel periodo compreso fra il secolo XIV e il XVI della nostra Era. Oggi consultabile nel testo a cura di Domenico Di Marzo, Libreria Editrice Psiche, 2011.
[2] Asana è un termine sanscrito, neutro. Per convenzione i nomi neutri di altre lingue vengono traportati nella lingua italiana nel genere maschile.
[3] Una breve panoramica di come Yoga si sia diffuso in Occidente la trovate qui: Guido N. Zazzu - Le Vie dello Yoga attraverso gli occhi dell'Occidente.

venerdì 19 ottobre 2018

Sulle orme di Padre ANTHONY DE MELLO - Mediazione della Meditazione


La scelta di mettersi sulle orme di De Mello, per un ciclo di meditazioni, da affiancare a quelle in essere da molti anni, Le meditazioni del Plenilunio, si muove sia da una richiesta di alcuni, che nel passato avevano partecipato alla tradizionale meditazione dopo la seduta di Yoga, sia da un’esigenza personale di proporre una via di meditazione, che non fosse strettamente legata al momento successivo alla pratica di Yoga, e che era sempre stata di carattere orientale, magari con qualche sforamento sul versante modernista della New Age, utilizzando soprattutto le proposte di Osho, per riprendere una meditazione che si ricollocasse nelle nostre radici, che infine ridesse corpo alla nostra identità storica, ma anche nella considerazione karmica, essendo nati e vissuti in questo Occidente, con le sue tradizioni e la sua visione della spiritualità. 

È pur vero che da molti anni ci ritroviamo per l’appuntamento della meditazione del Plenilunio, che riunisce tutti gli uomini di buona volontà, a prescindere dal loro Credo, se ne hanno uno in cui identificarsi, e della loro vis politica, e si rivolge ai grandi maestri dell’Umanità, che nel corso dei millenni sono stati modello di vita. Questa via di meditazione che tuttora condivido per il suo appello ad affermare i grandi valori che consentono agli uomini di vivere in pace, non appaga tuttavia la meditazione che si pone alla ricerca del rapporto con il Divino.

Personalmente, nel corso del tempo, mi sono sempre più interrogato sul meditare: seguendo le indicazioni provenienti dall’India, madre di tutte le correnti definibili orientali, si è posta in atto una progressiva esclusione dell’aspetto devozionale, che è stato invece proprio della nostra tradizione occidentale. Pur vero che in alcune di queste correnti di provenienza orientale, ci si rivolga in forma devozionale alla grande madre Natura o ad un artefice della creazione, ma manca tuttavia la relazione con un Dio creatore e presente nella vita dell’uomo.

Per questo scelgo oggi quella che potremmo chiamare una mediazione della Meditazione, mettendomi sulle orme di De Mello.

De Mello infatti nasce in India, da una famiglia cristiana, una piccolissima minoranza, che praticava, e pratica - credo - tuttora, un cristianesimo dalle molte sfumature, ma quel che importa è che sedicenne De Mello deciderà di dedicarsi alla vita sacerdotale ed entra nel Collegio dei Gesuiti. 

La sua vita si svolgerà nel guidare esercizi spirituali, fondò un centro che chiamò Sadhana, nome tratto dalla cultura originaria dell’India, in cui era nato e cresciuto, e che vuol dire cammino spirituale, dedicato esclusivamente alla formazione spirituale mediante accurati itinerari di cammino verso Dio. De Mello infatti ha ben chiaro dove l’uomo debba guardare per evolvere e dove debba arrivare: Dio. 

Ecco allora che la cultura spirituale e la pratica della meditazione dell’India viene plasmata per ritrovare la via del cammino verso Dio; non una meditazione finalizzata a perdersi nel Nulla, non una meditazione per potenziare le proprie capacità psichiche, ma una meditazione per rimettersi in cammino, il cammino del piccolo verso l’Assolutamente grande, il cammino del finito verso l’Infinito, il cammino di chi accetta la finitezza spazio-temporale dell’incarnazione, e infine il cammino di chi identifica l’Assoluto, l’Infinito, con un Dio presente e misericordioso, presente perché ha parlato e parla, misericordioso perché nel viaggio verso di Lui ci mostra costantemente quello che nella vita vale e quello che non vale.

Mediazione della Meditazione, in cui forte era il riscatto della tradizione occidentale, e cristiana in modo particolare. 

Da lui, dal suo libro Alle sorgenti, traggo spunto per questo nostro primo incontro.

Troveremo un riferimento alla Natività, che è portato in termini puramente simbolici di tutte le natività, ma è anche vero che, nella storia dell’Umanità, nessun’altra natività è stata assunta in maniera così simbolica di tutte le nascite, e, in nessun’altra religione, una natività è stata assunta come epifania del Sacro in modo così prosaico e profano. E proprio in questa essere prosaico e profano, si colloca la similitudine di tutte le natività.


L’AVVENTO 

Gli eventi della storia sono stati vagliati 
per la mia venuta in questo mondo 
non meno che per la venuta del Salvatore. 

Ogni nascita avviene dopo un preciso vaglio di una storia, che è ben prima di quella stessa nascita, conseguenza allora di quella storia. C’è un perché di quella nascita, che è in quella storia, e che è nel divenire che quella nascita determina, non soltanto per chi nasce, ma anche per il mondo stesso, che con quella nascita non è più lo stesso di prima.

Questo processo appartiene ad ogni nascita. La nascita, come la morte, avviene nel principio dell’uguaglianza.

I tempi dovevano essere maturi...
il posto doveva essere quello giusto...
le circostanze predisposte...
prima che potessi nascere. 

Si nasce perché è venuto il tempo di nascere, in quel posto, dove si parla quella lingua, dove si praticano quegli usi e costumi, dove vige quel diritto, dove si contempla quel dio, in quelle forme, con quella liturgia, dove il clima consente quel modo di vivere e dove la natura fornisce quei beni.

L’esperienza della vita, che del nascere è la conseguenza, si progetta in un altrove, di cui si perde memoria, ma si consuma sulle coordinate individuate da quel progetto.

Ananke, chiamavano i greci questa necessità imprescindibile, inflessibile: i tempi maturi, il posto giusto, circostanze predisposte da un prima senza tempo; il tempo, che separa dal prima, è la nascita che insinua nel tempo, Kronos, che nel vivere si consuma.


Dio scelse i genitori di suo Figlio 
e li dotò della personalità necessaria 
per il Bambino che doveva nascere. 

Ed eccoci a definire il “prima”, almeno indicato per ora nel Figlio suo. Ma la domanda se questo prima non sia questo Dio per tutti, in ogni Incarnazione, è legittima.
Io me la pongo, e mi do la mia risposta. 
Ognuno può legittimamente porsi la domanda e darsi la sua risposta. Ognuno può identificare quel “prima” con l’Assoluto, governatore del creato, con l’Energia, come oggi va di moda dire, o con chi altro o cos’altro voglia, ma in tutte queste identificazioni viene meno il rapporto fra un Essere che progetta il percorso del suo figlio, e un Dio, il Dio, aggiungo io, che invece ne fa programma progettuale con una finalità. Non c’è un Dio così definibile in culture distanti da noi, provenienti dall’Oriente, e oggi così dotate di attrazione e fascino. 

Parlo con Dio dell’uomo e della donna 
che ha scelto 
perché fossero i miei genitori...

Si capovolgono i termini della percezione del rapporto: ora è l’uomo che si rivolge a Dio, l’uomo-io. Da considerazioni di carattere universale si scende nel particolare, nel tessuto individuale di ognuno di noi, che, almeno una volta nella vita, si è domandato quale motivo ci sia stato di nascere da quei genitori, proprio quelli e non altri. Quella nascita, che ha stabilito le prime e più importanti coordinate dell’incarnazione. Qualcuno si interroga non una volta soltanto, ma più volte nel suo percorso esistenziale, in funzione di comprendere il senso del suo essere qui e ora: esistere nello spazio e nel tempo, due confini estremamente precisi, determinati e condizionati dalla nascita. 
Questo percorso porta con sé la comprensione del finito, spazio e tempo definiscono il finito e contestualmente l’infinito: finito caduco e fragile di fronte all’Infinito.

finché capisco che dovevano essere 
il tipo di esseri umani che sono stati 
se dovevo diventare 
ciò che Dio intendeva che io fossi. 

Capisco! Dal latino càpere e poi càpire, prendere afferrare appropriarsi. Fare proprio ciò che non lo era prima. Operazione di acquisizione, infine diventarne padroni: diventare padroni della propria storia, che è cominciata dai genitori in uno spazio e in un tempo definiti. Diventare padroni della propria storia, partendo di lì, da quei genitori scelti perché quella storia, definita nello spazio e nel tempo, avesse senso: diventare ciò che Dio  intendeva che si diventasse, una goccia nell’Oceano, laddove, se quella goccia non ci fosse, mancherebbe. Senso, ovvero la semplice responsabilità verso il mondo intero. Mondo intero è un concetto così vasto da divenire infine astratto, ma ognuno deve guardare al mondo che può vedere e al mondo che lo contiene, e che lui stesso è in grado di contenere; allora non è difficile comprendere la responsabilità verso quel mondo definito nel tempo e nello spazio, dove si situano la famiglia di origine, i parenti, gli amici, tutti quelli che con me esistono in quel tempo e in quello spazio. 
In quel tempo e in quello spazio, non dove piacerebbe, o dove ci si immagina, perdendo di vista lo spazio definito e assegnato.
Si resta figli di quei genitori in quel tempo e in quello spazio; è un’illusione vedersi in altri luoghi, assumendone liturgie, modi, usanze; illusione, quella stessa illusione, che talvolta, si crede di poter evadere fuggendo in mondi che non ci appartengono, assumendo vesti fisiche e mentali improprie; illusione di poter essere altro da quello che si è all’interno di quello spazio, di quel tempo e frutto di quei genitori e della storia che loro hanno incarnato per noi.

Gesù Bambino viene, come ogni altro 
bambino,
per portare al mondo un messaggio. 

La Natività assunta come simbolo di tutte le nascite; una per tutte, soltanto per definirne il senso del nascere. Il perché del nascere. A sua volta ripropone il perché dell’esserci, fin dalla creazione. «La scienza rende esplicito l’incredibile ordine naturale, le interconnessioni a molti livelli tra leggi della fisica, le reazioni chimiche nei processi biologici della vita ecc. Ma la scienza può rispondere solo a un tipo fissato di domande, che concernono il cosa, il dove e il come. Con il suo metodo, potente quanto esso sia, non risponde (e in verità non può), al perché», così si è espresso il grande astrofisico Sandage. Il quale vedeva il grande ordine che esiste nell’universo, il fatto che tale ordine si trova all’interno di ogni singola realtà e tra tutte le realtà nel loro insieme, e afferma: se «non c’è Dio niente ha senso», perché senza Dio, cioè senza una Intelligenza creatrice ed ordinatrice, non trova risposta la domanda più importante: da dove infatti quell’essere, quell’ordine? Da dove quelle interconnessioni, quel “disegno” dell’universo che appare così “miracoloso”? Non certo dal caso: «Il mondo è troppo complicato in tutte le sue parti e interconnessioni per essere dovuto solo al caso».

Quale messaggio sono venuto a portare io?...

Mi affido ancora a Sondage, il quale così si esprimeva: «Sono personalmente convinto che l’esistenza della vita con tutto il suo ordine in ognuno dei suoi organismi è assemblata semplicemente troppo bene. Ogni parte di un corpo vivente dipende da tutte le altre parti (del corpo) per potere funzionare. Come fa ogni parte a saperlo? Come ogni parte si differenzia al concepimento? Più si studia la biochimica, più diventa incredibile che non ci sia una qualche sorta di principio organizzatore, un architetto, per chi crede, o un mistero».
E questo principio ordinatore perché avrebbe messo insieme quel preciso corpo, che ospita la mia coscienza? Perché da un seme sarebbe nata questa pianta in questo giardino, in questo tempo? Questa pianta che fa frutti che hanno semi per altre piante? 

Cerco la guida del Signore per esprimerlo 
in una parola...
o un’immagine...

Alle domande, che mi sono posto, non ho risposta senza una guida, un’interprete, una parola che mi dia una chiave di lettura. Eccomi qua, con la mia finitezza a fare i conti con il limite. Mi sovviene la storiella del bambino che con una conchiglia versava l’acqua del mare in una buca. Storiella attribuita a Sant’Agostino, il quale avrebbe interpellato il bambino su cosa stesse facendo e la sua sorpresa ascoltandone la risposta «Voglio travasare il mare in questa mia buca» e alla spiegazione del santo sull’impossibilità di compiere questa azione. Non si può che accettare l’incommensurabile grandezza dell’Universo, prima ancora di immaginare di comprendere il suo organizzatore, e il mistero che avvolge la sua organizzazione. Non si può far altro che accettare di essere nati in quel momento, in quel luogo, da quei genitori, che parlano quella lingua, che professano quella religione, che hanno quel livello culturale, quelle disponibilità economiche, che frequentano quegli amici, e via seguitando. Non si può che accettare la somma di coordinate sotto cui avviene la nostra nascita, e proprio per questa ragione non si può non accettare che vi sia un messaggio in questo evento. E non si può non accettare la dipendenza dall’organizzatore del tutto per averne un qualche elemento utile ad una comprensione, che potrà restare comunque parziale, quel poco di mare che può stare in una buca, per quanto grande essa sia.

Cristo viene nel mondo 
per percorrere un certo cammino,
per compiere un certo destino. 
Egli ha adempiuto consciamente 
ciò che era stato «scritto» per lui. 
Guardando indietro vedo con meraviglia 
ciò che è stato «scritto»
e si è compiuto finora 
nella mia vita...
e per ogni parte di quello scritto 
per quanto piccola, 
dico: «grazie»...
per santificarla con la mia gratitudine. 

Guardando indietro: ecco la chiave interpretativa. Guardando indietro vediamo la trama che ha segnato la vita. Cristo assunto qui ancora come emblema della vita trascorsa del Bambino, è guardato e interpretato dalla sua eredità, dal lascito elargito ai posteri. Si dispiega il messaggio che ognuno porta, scrutando da lontano nel tempo, quello che è stato, quello che si è compiuto finora, e si santifica quella storia con gratitudine. 

Guardo con speranza
e abbandono 
a tutto ciò che ancora deve venire...
e, come Cristo, 
dico: «Sì. Così sia»...

Valutare il passato ci pone nella condizione di interpretare il presente - siamo in ogni momento quello che siamo stati - e di immaginare il futuro. Apprezzare ciò che è stato, riparare ciò che non va, riprovare con ciò che non è stato, riformulare in ogni momento il futuro possibile, e soprattutto accettare ciò che non poteva non essere, ciò che è stato, e che ci rende oggi quello che siamo. 

Infine rievoco il canto 
che gli angeli fecero risuonare 
quando nacque Cristo. 
Proclamarono quella pace e quella gioia 
che rendono gloria a Dio. 

Ho mai udito il canto che gli angeli 
intonarono
quando sono nato io? 

Vedo con gioia ciò che è stato fatto, 
per mio tramite, 
per rendere il mondo un posto migliore...
e mi unisco a quegli angeli 
nel canto che intonarono 
per celebrare la mia nascita. 

Se non ho udito quel canto alla mia nascita, posso ancora sentirlo, in ogni momento si rinasce: essere consapevoli di questo immenso potere, ci pone nella condizione di ascolto.