giovedì 26 gennaio 2017

L'acqua -jala- nell'Ayurveda e nelle sue pratiche terapeutiche


L’acqua, Jala in sanscrito, è uno dei cinque elementi, il Panchamahabhuta, costitutivi di tutta la materia dell’Universo, dal momento in cui l’Assoluto, Purusha, si è manifestato nella creazione, Prakriti.
Jala, acqua, insieme a Terra, Fuoco, Aria ed Etere, è presente in ogni cosa, perché in ogni espressione fisica per quanto piccola, microcosmica, è presente il Tutto, macrocosmo; dove l’Etere, Akash, è la vibrazione che sottende ogni cosa, ed è insieme la fonte di tutta la materia e lo spazio in cui la materia esiste; l’Aria, Vaju, è l’elemento gassoso; la Terra, Prithvi, è l’elemento solido; il Fuoco, Tejas, la forza o energia capace di mutare lo stato delle sostanze; l’Acqua, Jala, rappresenta lo stato liquido.

Poiché tutto ciò che esiste, è il risultato della diversa composizione di questi cinque elementi, tutto è classificato nella filosofia vedica, da cui l’Ayurveda discende, in base alla predominanza di un elemento; per esempio, una montagna è composta in massima parte dall’elemento Terra, ma è formata anche da tutti gli altri quattro elementi, sebbene la quota di questi sia notevolmente inferiore rispetto alla Terra, che in questo modo definisce la montagna.

Tuttavia, se è riscaldata da una intensa fonte di calore, la montagna si scioglie, si liquefa, mostra quindi la sua parte acquosa, e, perdurando il calore (elemento Fuoco), passa dallo stato liquido (elemento Acqua), attraverso l’ebollizione, allo stato gassoso (elemento Aria), rivelando in questo passaggio, attraverso il calore e la luce, l’elemento Fuoco che la pervade. E questa metamorfosi si verifica nello spazio (elemento Etere).
È importante tenere ben presente questo quadro, per comprendere come l’Ayurveda, che è la parte della filosofia vedica che si è dedicata all’aspetto della salute dell’uomo, abbia tenuto in considerazione l’Acqua, che è l’elemento prevalente nella costituzione dell’uomo stesso.
I cinque elementi infatti si combinano nella Prakriti, ovvero la costituzione dell’uomo, nella forma sottile di tre Dosha.
Dosha è una sorta di forza energetica, attiva all’interno dell’individuo, che diviene nel contempo prodotto di scarto dei cinque elementi di base: Vata è costituito da Etere e Aria, Pitta deriva da Fuoco e Acqua, Kapha da Acqua e Terra.
Vata, che deriva da Etere e Aria, è impercettibile, luminoso, mutevole, freddo, asciutto e permea tutto, governa i movimenti del corpo e della mente, è responsabile del respiro, nelle due fasi inspirazione ed espirazione, dell’escrezione, del sistema informativo del cervello, per cui dirige i processi cognitivi del linguaggio, della sensibilità, del tatto, dell’udito, dell’olfatto, regola il legame fra sentimenti e le reazioni che essi producono nel corpo o nelle singole parti del corpo, regola gli stimoli naturali, la circolazione del sangue, il vigore sessuale, presiede alla formazione del feto.
Pitta, che deriva da Fuoco ed Acqua, è caldo, pepato, piccante, acido, responsabile della vista, della fame, della sete, della digestione, della regolazione della temperatura del corpo, della morbidezza e della lucentezza del corpo, dell’allegria, della gioia, ed è il governatore dell’intelligenza e presiede al desiderio sessuale.
Kapha, che deriva da Acqua e Terra, ha in sé contemporaneamente la morbidezza e la solidità, la rigidità e l’opacità; pesante, presiede all’intera struttura solida del corpo, all’untuosità, dà al corpo stabilità, forza, perseveranza. Psicologicamente governa l’autocontrollo, ed è il responsabile del vigore sessuale nel compiersi dell’atto sessuale.


Questi tre Dosha si combinano variamente fra di loro in ogni individuo, connotandolo in modo tale che ognuno sia un individuo unico e irripetibile.
Come è facile comprendere, l’Acqua, Jala, è l’unico dei cinque elementi, che è presente in due Dosha, nel Dosha Pitta e nel Dosha Kapha; il Dosha Pitta che governa tutte le trasformazioni che hanno luogo nell’organismo, dalla digestione e trasformazione degli alimenti, alla trasformazione degli stimoli sensoriali, all’attività metabolica; il Dosha Kapha che esercita il ruolo di stabilizzare l’organismo nelle sue diverse funzioni, lubrifica, preserva, definisce, è l’attento conservatore di tessuti, cartilagini e ossa.
L’acqua è dunque l’elemento che partecipa sia a tutto ciò che è trasformazione, metabolismo, sia a tutto ciò che è stabilità e solidità.
Nell’uomo infatti, secondo il Charaka Samhita, il più antico testo di medicina del mondo, datato, nella forma scritta che noi conosciamo, intorno all’XI secolo a.C., tutte le componenti fluide e viscide, fra cui il grasso e i liquidi organici come la linfa, il sangue, il muco, i fluidi enzimatici, le secrezioni vaginali e lo sperma, hanno natura essenzialmente acquosa. Quello che però si evidenzia è che l’acqua è presente, sia pure non in modo predominante o assolutamente minimale, in tutte le parti del corpo.
Poiché ogni elemento presente nel corpo si alimenta con l’elemento corrispondente, per un principio di similitudine, è evidente che l’acqua diventa il principale alimento che l’uomo deve avere a disposizione per alimentare la sua parte acquosa così significativa, nel corso di tutta la sua vita, dalla prima inspirazione all’ultima espirazione.
La vita si svolge, ed è inconcepibile se non in questo modo, con il succedersi di tre attività: movimento, metabolismo e stabilità, ovvero energia cinetica (Vata), energia potenziale (Kapha) ed energia che regola la trasformazione dall’una all’altra attività (Pitta).
Jala dunque è presente sia in Pitta e sia in Kapha; fondamentale presenza allora: sia per sciogliere gli enzimi della digestione nello stomaco, sia per mantenere in buona motilità il contenitore, lo stomaco appunto, sia per consentire un buon transito del bolo, del chimo e del chilo dalla bocca all’intestino, sia per la salute dei vasi contenitori, dove transitano bolo, chimo e chilo.
Per questa ragione, all’acqua l’Ayurveda ha sempre guardato con grande attenzione.
La prima indicazione che troviamo come necessità esistenziale, secondo l’Ayurveda, è che si deve bere acqua al risveglio, almeno due bicchieri, acqua durante la giornata, almeno un litro, poco durante i pasti, per non raffreddare il fuoco digestivo e per non diluire eccessivamente gli enzimi della digestione, e bere ancora acqua prima di coricarsi, a temperatura ambiente o meglio se leggermente intiepidita.
Acqua, non altre bevande, non tè, non tisane, non succhi di frutta, non bevande zuccherate o dolcificate, non birra e vino: acqua, semplicemente acqua. Tutte le altre bevande stimolano il percorso digestivo, dalla secrezione dei succhi gastrici in poi, e quindi non svolgono lo stesso ruolo dell’acqua che invece transita senza innescare questi processi.
Questa è la principale indicazione della prevenzione: consentire all’elemento principale del corpo, l’acqua, di avere nutrimento e ricambio; consentire allo stomaco e soprattutto all’intestino, che è considerato il luogo fisico dove si originano la più parte delle malattie, di vivere in un ambiente pulito, salubre, equilibrato dal punto di vista energetico.
L‘Ayurveda si origina all’interno dei Veda, i libri più antichi della storia dell’umanità, per la precisione è l’appendice del IV libro, Atharva Veda, ed è considerata un dono fatto dagli dei all’uomo per vivere in buona salute, quindi ancora oggi dagli induisti è considerato un libro rivelato: il suo obiettivo è il mantenimento dello stato di salute dell’individuo, che è insieme corpo, mente e spirito, microcosmo dell’intero macrocosmo; quindi l’Ayurveda è prima di tutto un’indicazione a mantenersi in salute, vale a dire prevenzione.
Soltanto in epoche successive, di fronte alla constatazione che solo pochi individui riuscivano nella loro opera di vita salutare senza ammalarsi, l’Ayurveda diviene medicina, nell’accezione che noi diamo a questo termine, ma con sfumature differenti rispetto al significato che noi diamo a questo termine, infatti per l’Ayurveda la parte che cura lo stato di disagio, ovvero la perdita della salute, è insieme scienza e arte di ristabilire la salute quando questa si sia perduta.
Scienza perché essa ha elaborato una precisa anatomia, fisiologia del corpo umano, secondo ben precise regole universali; arte, perché nella considerazione che essendo ogni individuo, mente-corpo-anima, un caso unico irripetibile che vive in un habitat definito da molte variabili, climatiche-economiche-culturali, non si può dare un protocollo terapeutico universale.
Ogni individuo, con la sua unicità di costituzione, è un caso unico e si richiede allora un’attenta valutazione della sua Prakriti, ovvero della sua costituzione energetica, della valutazione delle stato dei suoi Dosha costitutivi e di una precisa valutazione dello squilibrio dei Dosha in quel momento, espressione dello stato di non salute che si manifesta nel fisico in forma sintomatica.
Occorre però anche valutare lo stato della mente di quella persona, il suo ambiente di provenienza, la sua cultura, la sua capacità economica, il ruolo che egli svolge nella vita nonché l’habitat climatico in cui egli vive.
Tutta questa complessa valutazione è un’arte che il terapeuta svolge tenendo conto dei principi scientifici di riferimento.
Prevenzione e cura sono due momenti distinti. Prevenire assumendo acqua, acqua e non altri liquidi, cosa che per noi, immersi nella nostra cultura dal gusto artefatto, facciamo fatica a comprendere; acqua anche quando noi abbiamo sollecitato impropriamente il gusto del corpo o sollecitato impropriamente i desideri della mente, con sostanze nocive per l’uno o per l’altra: abbiamo bevuto un caffè, non è un male, ma beviamo allora un bicchiere d’acqua in più; abbiamo esagerato con l’alcool, può capitare, beviamo allora anche fino a quattro bicchieri d’acqua in più per diluire, e ripulire il corpo dall’accumulo tossinico; siamo stati in un ambiente chiuso, chiassoso, disturbante per l’equilibrio della mente, ebbene, ripuliamoci il giorno dopo con acqua tiepida o calda. Anche i disagi della mente producono accumulo tossinico nel corpo.
L’accumulo tossinico, aama, è per l’Ayurveda la principale causa di malattia, anzi, forse l’unica causa: aama intossica lo stomaco e l’intestino, perché questi organi non riescono più a smaltire in modo corretto l’accumulo tossinico, che di qui si propaga nelle differenti parti del corpo, trovando sedi adeguate per consolidarlo e avviando così il primo stadio della malattia.
Tenendo conto che la più parte dei termini sanscriti sono così ricchi di sfumature da assumere un significato preciso solo dal contesto in cui vengono utilizzati, aama potrebbe essere vagamente tradotto con crudo, non completamente cotto, non maturo, e indica genericamente il cibo assunto dall’organismo senza essere stato compiutamente elaborato e digerito.
L’organismo non è in grado di assimilare ciò che non è stato compiutamente digerito, fatica ad utilizzarlo, solo parzialmente lo espelle e per la restante parte lo va a depositare da qualche parte ostruendo i canali energetici e rendendo faticosa l’attività degli organi interni.
Aama è il succo che nutre tutte le malattie, si legge in Charaka Samhita.
Aama si forma nello stomaco, vuoi per eccesso di cibo, vuoi per un cibo sbagliato, vuoi per un fuoco digestivo troppo basso oppure nella mente, quando non si è in grado di digerire le emozioni che la vita ci propone, di elaborare le percezioni sensoriali, i pensieri, i sentimenti, i desideri. Lo stomaco infatti è deputato a digerire non solo il cibo, ma anche le emozioni.
Anzi, secondo il Charaka Samhita, è sempre la mente che causa aama che si manifesterà poi fisicamente dapprima nello stomaco: alimentarsi eccessivamente, alimentarsi in modo improprio, in modo disordinato, sono prima di tutto fattori mentali; significa che noi attribuiamo al cibo un valore eccessivo oppure che abbiamo fatto altre scelte esistenziali trascurando la cura per il cibo, per la nostra alimentazione che è la parte privilegiata del nostro sostentamento energetico.

L’opera di prevenzione è fondamentale allora per prevenire la formazione di aama, accumuli tossinici: per questo l’Ayurveda suggerisce una sorta di rituale quotidiano in cui l’acqua ha una parte importante, non soltanto per essere assunta come elemento rigenerante e depurante, ma anche per la cura della propria persona che è insieme un fatto fisico ma anche un rituale della mente, un modo per riappropriarsi ogni giorno con atteggiamento benevolo e compassionevole del nostro corpo, che è l’unico che abbiamo e che non è sostituibile.
Ecco la liturgia: svegliarsi presto e bere acqua per depurare e stimolare l’evacuazione, che dovrebbe avvenire entro pochi minuti dal risveglio; quindi si deve procedere alle abluzioni: lavare le mani, i piedi, il viso; sciacquare la bocca, raschiare la lingua, lavare i denti, lavare le orecchie e il naso con acqua semplice, con uno strumenti adeguato in modo tale che l’acqua, entrando da una narice, esca dall’altra. Tutto con semplice acqua, solo occasionalmente si usa qualche ausilio detergente, che di norma è olio di sesamo; il sapone, così come noi lo intendiamo, non era e non è previsto. Lavarsi con acqua e lavare tutte le cavità con acqua è operazione sufficiente e non altera il naturale stato dei tessuti.
Periodicamente sono consigliati i gargarismi di acqua appena salata o di acqua con polvere di curcuma per disinfettare più in profondità. Un’attenzione particolare è rivolta alla pulizia dei denti e agli occhi è riservata una pulizia accuratissima; per una buona pulizia, infatti, si dovrebbe utilizzare acqua leggermente intiepidita, tenuta prima in bocca in modo che assorba un poco di saliva, poi si deve procedere a vere e proprie abluzioni con acqua fredda: gli occhi sono una delle principali sedi di Pitta e quindi tendenzialmente molto caldi e perciò stessi soggetti alla malattia. Raffreddare gli occhi e pulirli a fondo è un’operazione fondamentale per conservarli in buona salute; dopo la pulizia si può applicare del collirio, dell’acqua di rose o dell’infuso di Triphala.
Quando ormai però sia stato prodotto aama, si intossicano inizialmente lo stomaco e l’intestino, che non svolgono più adeguatamente il loro rispettivi ruoli di digerire e di elaborare la materia, operazioni che consentono la trasmutazione del cibo sotto forma di energia da trasferire nel corpo. Se non si interviene con iniziali operazioni di rimozione dell’ama accumulato, questo si trasferirà progressivamente in altre sedi, dando origine così alla malattia degli organi interni o di altre parti del corpo.
Aama, che è composto da cellule anomale prodotte dalla digestione non adeguata di qualsiasi alimento, in particolare di quelli ricchi di proteine e di grassi, trasmigrando attraverso le pareti dell’intestino, si diffonde nella corrente ematica e di qui si trasferisce in sedi che soggettivamente sono individuate come depositi tossinici.
In questo modo il corpo si predispone alla malattia, non solo esogena, ma anche endogena: un virus contagioso, una colonia batterica, ecc., si sviluppano in un terreno fertile, ovvero in un terreno in cui ama ha già debilitato le difese immunitarie, e in cui i sentieri dove scorre l’energia sono occlusi da percentuali più o meno alte di aama.
Maharishi definiva aama come "una sorta di colla" che depositandosi sulle pareti interne del corpo, rende difficoltosa la comunicazione energetica e il ricambio cellulare, producendo dapprima uno stato di debilitazione, che è uno dei primi sintomi dell’evoluzione dello stato di non salute, e poi la malattia conclamata.
Questo processo è estremamente subdolo (soprattutto per chi, come noi, nella nostra società, non è in grado di controllare l’alimentazione) perché è un processo lento, quasi di sedimentazione quotidiana, e i primi stadi dello stato di non salute sono asintomatici, salvo il manifestarsi di una condizione più o meno accentuata di debilitazione; quando il sintomo si manifesta, secondo l’Ayurveda la malattia è già andata oltre i primi stadi.
Per questa ragione, l’Ayurveda ha considerato fondamentale tenere pulito il corpo, evitare che l’ama possa depositarsi: l’acqua in questo progetto di pulizia, gioca un ruolo fondamentale; oltre, come abbiamo detto alla normale quotidianità di nutrire e ripulire, e alla liturgia quotidiana di pulizia del corpo, l’acqua interviene con alcune pulizie straordinarie, la prima di tutte, la più semplice, la terapia dell’acqua calda.
Si fa bollire per quindici minuti circa un litro d’acqua, la si mette in un contenitore che la tenga calda e la si beve in piccole quantità durante la giornata. Facendo bollire l’acqua per almeno quindici minuti, oltre a far precipitare una parte dei sali minerali sciolti nell’acqua, si ha l’effetto di allentare le forze di Van der Wals, le forze di attrazione delle molecole. In questo modo l’acqua diviene, se così possiamo dire, ancora più fluida e questo le consente di penetrare più facilmente nei tessuti operando una pulizia in profondità. Infatti, a lungo andare, l’acqua, durante il suo passaggio, non solo pulisce il tratto gastro-intestinale, ma penetra nei tessuti più lontani, sciogliendo l’ama che vi sia stato depositato.
Ognuno di noi dovrebbe imparare, e questo è un altro fondamentale suggerimento dell’Ayurveda, ad individuare la propria Prakriti, ovvero la propria costituzione energetica, per capire quale sia la forza del suo fuoco digestivo, quali siano i cibi che gli risultino di difficile digestione e quindi da evitare, o quelli accettabili ma da usare con moderazione, e quali siano invece i cibi che maggiormente si confanno alla sua costituzione e che diventano quindi più facilmente digeribili e nutrienti; il cibo infatti è nell’Ayurveda considerato nutrimento, medicina o veleno; ognuno dovrebbe imparare a calibrare i propri pasti, imparando a nutrirsi, in qualità e in quantità, in modo da non consentire produzione di aama.
Tuttavia questo è un piano di riferimento ideale: noi tutti, anche quando stiamo particolarmente attenti ad utilizzare una buona conoscenza della nostra costituzione, nella nostra società, condizionati come siamo da una serie di coordinate che non possiamo controllare, contribuiamo a fabbricare aama. 
Occorre dunque periodicamente procedere alla terapia dell’acqua calda. La tradizione suggerisce di procedere a questa sorta di bevuta, almeno un giorno alla settimana, mantenendo in quel giorno una dieta a base di cibo leggero, riso, frutta e verdura, evitando in particolare le proteine di origine animale.
Da praticare al cambio di stagione o anche una volta al mese, c’è la pulizia completa, dalla bocca all’ano, con la pratica di Shank Prakshalana (gesto della conchiglia), ovvero far scorrere acqua in tutte le anse del tratto gastro-intestinale. Si beve acqua leggermente salata, da quattro a sei bicchieri, a digiuno la mattina, dopo aver compiuto alcuni movimenti di Yoga per facilitare il passaggio dell’acqua, fino ad ottenere l’espulsione, e si continua a bere fino a quando l’acqua non viene data via pulita.
Shank Prakshalana è una pratica millenaria, madre per certi aspetti della moderna idrocolonterapia che, a differenza di questa, non è aggressiva, e non disturba l’energia di Vata che ha sede nel colon.
Quando ormai ama si sia consolidato, perché non si è stati accorti nella prevenzione o nelle periodiche pulizie e si sia di fronte ad alcuni sintomi conclamati di malattia, l’Ayurveda propone due ulteriori sistemi di pulizia: Vamana Dauthi, che è la procedura di pulizia dello stomaco, e Basti, che è una profonda pulizia dell’intestino.
Vamana Dauthi è in realtà costituito da due differenti livelli di intervento, il primo, Jala Dauthi, e il secondo, Vamana Dauthi vero e proprio. Il primo, Jala Dauthi, è una via di mezzo fra la terapia dell’acqua calda e il livello successivo, Vamana Dauthi, da utilizzare come vera e propria forma terapeutica.

Jala Dauthi consiste nel bere circa mezzo litro d’acqua calda a digiuno, poco dopo il risveglio, volendo leggermente salata, e dopo aver camminato un pochino, si sollecita il vomito, in modo da espellere l’acqua ingerita: questa pratica rimuove gli accumuli di Kapha o di aama non solo dallo stomaco, ma anche dalla regione dell’apparato respiratorio. Si tratta di un’antica pratica ottima per ristabilire la vitalità del fuoco digestivo e la funzionalità dell’apparato respiratorio. Tale pratica può essere praticata per esempio dopo un periodo, come le feste tradizionali tra Natale e Capodanno, in cui si è ingerito cibo dannoso per quantità e o per qualità. È suggerito anche dalla tradizione, quando vi sia accumulo di catarro, nei bronchi o nei polmoni.

Vamana Dauthi è invece opera terapeutica, è il primo dei processi che fanno parte del Panchakarma, il complesso sistema formato da cinque tappe di un progetto di profondo risanamento del corpo. Si pratica anch’esso ingerendo acqua nella quale possono essere state disciolte erbe medicamentose, come erba di liquirizia o polvere di radice di calamo, quindi si stimola il vomito. Vamana Dauthi è indicato per le malattie dell’apparato respiratorio (tonsilliti, sinusiti, infiammazioni, asma, respiro affannoso, ecc.), per le malattie della pelle e per il diabete.
Basti è la pulizia dell’intestino attraverso il clistere. Molti disordini di Vata come la sciatica, i reumatismi e la gotta, trovano grande giovamento dalla pratica del Basti. Si pratica generalmente con acqua ma anche, in taluni casi, con olio, anche se è preferibile l’acqua, al massimo con l’aggiunta di decozioni di erbe.
L’acqua dunque per il corpo, ma anche per la mente, perché un corpo che soffre disturba la mente, una mente disturbata esaspera il corpo.
Ma non soltanto acqua per il corpo: l’Ayurveda è stata la prima disciplina ad avere una visione olistica della vita; l’uomo è collocato in mezzo ad un mondo, dove tutto può essere per lui benefico, se lui stabilisce un rapporto di rispetto col mondo stesso intorno a lui.
Per questa ragione l’Ayurveda insegna a proteggere e conservare l’acqua, che è dei cinque elementi non soltanto l’elemento più rappresentato nel corpo, ma anche in tutto l’ambiente nel quale l’uomo vive.
L’acqua è una grande madre senza la quale non c’è esistenza, identificata nella cultura induista nei grandi fiumi sacri, dove si scende per lavare più che il corpo l’anima, e dove si torna in forma di cenere quando il cammino karmico si è concluso.


BIBLIOGRAFIA:

Caraka Samitha (text with english translation), a cura di P. V. Sharma, Chaukhambha Orientalia, Varanasi 2008
B. Dash – M. M. Junius, Manuale di Ayurveda, Mediterranee, 1985
B. Dash, Terapia del massaggio nell’Ayurveda, Mediterranee, 1995
S. V. Joshi, ayurveda e Panchakarma, Il punto di incontro, 1999
V. Lad, Ayurveda, Il punto di incontro, 1987
V. V. Nanal, Principi ayurvedici per una sana alimentazione, M.I.R., 1996
Y. Ramacharaka, La cura dell’acqua, Quadrifoglio, 1970
S. Ranade, Trattato di medicina ayurvedica, Il punto di incontro, 1995

lunedì 23 gennaio 2017

Meditare non significa adorare


La Luna è citata per la prima volta nella Bibbia, nel Libro del Genesi, dove si racconta la storia di Giuseppe. (Giuseppe) fece poi un altro sogno e lo raccontò ai suoi fratelli, con queste parole: "Ecco, ho avuto un altro sogno: il sole e la luna e undici stelle si inchinavano dinanzi a me". Lo raccontò poi anche a suo padre, come aveva fatto ai suoi fratelli; ma suo padre lo sgridò, dicendo: "Che cos’è questo sogno che hai fatto? Forse io e tua madre e i tuoi fratelli dovremo prostrarci fino a terra dinanzi a te?"[1]. La Luna verrà citata ancora 54 volte nella Bibbia, ma da questa prima citazione si può evincere il significato che gli antichi davano ai luminari: il Sole rappresentava il maschile, la figura paterna, la Luna invece il femminile, la figura materna. Sole e Luna sono fra loro complementari e insieme agli astri raccontano la gloria del Creato. Il Sole illumina il giorno, la Luna illumina la notte, ogni parte del Creato ha un suo significato e un suo ruolo, ogni sua parte per quanto meravigliosa è soltanto una parte. Il profeta Baruc sintetizza così: "Il Sole, la Luna e le stelle, che brillano e svolgono un compito, obbediscono..."[2]. Tutto è collocato all’interno del grande disegno della Creazione, posto sotto la guida di Dio. Sole, Luna e tutto il firmamento sono un’occasione di grande riflessione su tutto il Creato, ogni parte con una sua caratteristica, come chiarirà San Paolo: "Come vi sono dei corpi celesti e dei corpi terrestri, ma altro è lo splendore dei corpi celesti, e altro quello dei corpi terrestri. Altro è lo splendore del sole, altro lo splendore della luna e altro lo splendore delle stelle: anzi una stella differisce in splendore da un’altra..."[3].
Parlare della Luna ci conduce ad una visione del Cosmo come di una mirabile architettura, governata da un Essere Supremo, che tutto contiene e che in ogni parte si rivela: macrocosmo e microcosmo.
La Bibbia esorta tuttavia a mantenere salda l’idea che ogni microcosmo rivela la grandezza del macrocosmo e che la preghiera e l’adorazione debbono rivolgersi soltanto all’ineffabile Presenza, che ha ordito la trama della Creazione. I luminari hanno una loro funzione, dichiarata all’inizio del Genesi: "Siano dei luminari nel firmamento del cielo per distinguere il giorno dalla notte, e siano segni per stagioni, giorni e anni, e servano come luminari nel firmamento del cielo per illuminare la terra. E così fu. Dio fece due grandi luminari: il luminare maggiore per presiedere al giorno e il luminare minore per presiedere alla notte, e alle stelle. E Dio li pose nel firmamento del cielo per illuminare la terra, e presiedere al giorno e alla notte e per distinguere la luce dalle tenebre"[4]. Chiarissima la reiterata idea di una funzionalità dei luminari e di una dipendenza dal Creatore, e, considerando che esistevano presso altre culture forme di adorazione del Sole o della Luna, la Bibbia con la voce di Mosè, chiarirà poco dopo: "E quando tu alzerai gli occhi al cielo e vedrai lassù il sole, la luna, le stelle e tutti gli astri del firmamento, non ti lasciare sedurre al punto di prostrarti davanti a tali creature, per adorarle; poiché il Signore, Iddio tuo, ha dato quelle cose in sorte a tutti i popoli che sono sotto il cielo…"[5]. La Luna, come il Sole e come tutti gli astri sono lì davanti a noi, come spunto costante di riflessione sull’unità del creato, sull’unità di tutti i popoli che stanno a guardarli.

[1] Genesi 37, 9-10

[2] Baruc 6, 59

[3] 1 Corinti 15, 40-41. Persino qui Paolo sembra echeggiare ciò che la moderna astrofisica spiegherà a proposito delle differenze fra le stelle.

[4] Genesi 1, 14-18

[5] Deuteronomio 4, 19

lunedì 16 gennaio 2017

La Luna e il suo fascino




















La Luna ben visibile nel cielo, anche diurno in molte giornate, ha una luminosità intensa di notte. Nella lunga stagione dell’umanità, in cui le notti non avevano altra illuminazione se non il cielo stellato e la Luna, non è difficile immaginare quanta attenzione essa abbia attirato su di sé. Una luminosità variabile, che rivela parti parziali della luna fino al suo totale svelamento nelle notti di plenilunio.
Mi immagino quanta attenzione essa potesse attirare su di sé.
La velocità del suo transito e le diverse porzioni mostrate, osservabili in un periodo molto breve, che sarebbe stato ad un certo punto di questa storia dell’umanità definito in ventotto/ventinove giorni, ha generato la prima contabilità del tempo che passa: da un ciclo all’altro, un mese dopo l’altro e infine la successione dei mesi hanno consentito di seguire lo spostamento del Sole nello Zodiaco, definendo l’anno.
Il calendario lunare è stato la prima forma di contabilità dei giorni: Indù, Babilonesi e Cinesi sono stati fra i più antichi estensori di calendari e presto si accorsero che i dodici mesi lunari lentamente perdevano la sintonia con la stagionalità della natura legata al Sole, per cui si misero in atto correttivi per mantenere la sintonia fra la successione lunare e quella solare. A tutt’oggi restano tracce di questo calendario luni-solare nel calendario ebraico e nel calendario della liturgia cristiana per collocare la data della ricorrenza della Festa di Pasqua. Il mondo islamico continua ad utilizzare un anno lunare, con un piccolissimo correttivo, cosicché il calendario lunare islamico anticipa ogni anno il suo inizio di 11 giorni rispetto al calendario solare.
Grande attenzione dunque alle fasi della Luna; il mondo antico che contava su queste per fare i suoi conti, si accorse molto presto che esistevano delle precise relazioni fra queste fasi lunari e la coltura della terra; ancor oggi in tanta parte del mondo questa attenzione è presente nella tradizione agricola, ed in particolare nella viticoltura, i cui vari processi sono tradizionalmente regolati secondo le fasi lunari; più precisamente, secondo la tradizione agricola, ogni pianta dovrebbe essere seminata e curata in accordo con le fasi lunari: la fase crescente della Luna stimolerebbe lo sviluppo delle foglie e la crescita verso l’alto, mentre in fase calante si dovrebbero seminare gli ortaggi da bulbo e da radice in modo da favorire la loro crescita verso il basso. Permane, in molte tradizioni, questa attenzione anche in piccole cose, come il taglio dei capelli o il confezionamento di conserve alimentari. Sebbene per questo tipo di pratiche vi sia stata una sorta di diffidenza da parte della scienza, è tuttavia innegabile che le fasi lunari abbiano un influsso sul movimento delle maree.
Mi immagino i nostri antenati e l’umanità tutta, nella sua lunga storia, quale fascinazione possano aver subito dalla Luna e quali e quanti attributi possano averle assegnato. A lei si rivolgevano per pronosticare il futuro i Cinesi, e gli antichi Drudi compivano riti, affidati alle Vestali per conoscere le sorti del popolo (di questo rimane una eco nella Norma di Vincenzo Bellini, con l’invocazione alla Luna, Casta Diva).

venerdì 13 gennaio 2017

Come si colloca oggi l’Ayurveda all’interno della Naturopatia?

Oserei dire che non si colloca, non si dovrebbe collocare, quanto meno. L’Ayurveda ha una storia antichissima in quanto il suo testo più antico risale intorno al 1000 a.C., e si tratta del compendio conosciuto come Charaka Samhita, ma una parte di Ayurveda è già riscontrabile come appendice del IV Veda, Atharvaveda, risalente si presume a qualche migliaio di anni ancor prima.
In tutti questi secoli l’Ayurveda si è raffinata, si è aperta alla medicina greca, a quella araba, cogliendo da esse quanto poteva essere utile, ed rimasta, e lo è tuttora medicina praticata in India.
Nessun’altra forma di naturopatia oggi praticata, malgrado si possano riscontrare tracce in alcuni paesi già alla fine dell’Ottocento, può vantare non soltanto una storia così lunga, ma anche un impianto di complessità sistematica, comprendente anatomia, fisiologia, e studio dei problemi relativi alla perdita e al riacquisto della salute come l’Ayurveda.
Per quanto oggi si tenda a fare di un’erba un fascio e a considerare così tutte insieme le cosiddette discipline olistiche o le varie correnti della naturopatia, in realtà vi sono differenze enormi per quanto attiene quella che è di fatto una scientificità sistematica; l’Ayurveda come la Medicina Tradizionale Cinese hanno una loro storia antichissima, che si fonda su conoscenze precise del corpo umano e del suo funzionamento all’interno di un ecosistema, che non possono assolutamente essere messe sullo stesso piano con la pratica erboristica, che è soltanto una delle componenti di queste due medicine, o con tecniche come il massaggio o la riflessologia, che sono anch’esse soltanto parti, e per la precisione strumenti, di quelle medicine. 
La confusione che oggi si fa è generata da superficialità e talvolta è strumentale per contrastare una diffusa pratica di naturopatia che non ha nessuna base solida e spesso praticata anche da chi ha conoscenze settoriali, magari approfondite, ma settoriali.
La tradizione ayurvedica si fonda su uno studio attento di quello che è il corpo umano in sé, astratto ideale, e poi sul corpo umano come esso è nella realtà, ovvero nelle infinite forme in cui si propone. Per questa ragione primaria conoscenza è lo studio delle costituzioni, Prakriti, che distinguono ogni individuo facendone uno differente dall’altro, nella sua assoluta unicità di corpo, mente e spirito. Si fonda poi su una ben precisa anatomia, che è differente da quella di derivazione occidentale, ma c’è comunque una visione precisa di come il corpo si componga e infine di come si comporti. L’avversione di molti per la Naturopatia può nascere proprio dal fatto che spesso non si ha una chiara conoscenza di come funzioni il corpo, di come esso sia fatto. L’Ayurveda invece ha maturato una conoscenza precisa di come il corpo sia fatto e di come esso si comporti, che per quanto differente da quella che studiano i medici nelle nostre Università, ha una sua fondatezza, che è poi in ultima analisi un differente nome per le cose.
È pur vero che oggi, in assenza di scuole riconosciute e in assenza di legislazione, chi vuole può studiare, come per un sacco di altre discipline, l’Ayurveda per corrispondenza e darsi una veste professionale; questo è un problema reale, ma partire da questo per coinvolgere nello stesso contesto Ayurveda e Naturopatia è ugualmente erroneo. L’Ayurveda è soltanto naturopatia in quanto affronta l’uomo all’interno della Natura e cerca di suggerire come non perdere la salute grazie alla Natura che lo circonda; ma non è Naturopatia, quando si intende qualcosa che non sia il sistema della medicina così detta ufficiale e che non si fondi su un impianto scientifico. 
L’Ayurveda ha un preciso impianto che non si può collocare nella visione scientifica contemporanea perché, partendo dal presupposto che ogni individuo è un caso unico, non si possono fare statistiche e per certi aspetti ogni intervento a favore del ripristino dello stato di salute è un intervento unico, che si attua per quell’individuo in quella particolare situazione, e perciò stesso non riproducibile; ma il sistema di indagine e la definizione dello squilibrio che produce quello che si chiama malattia in Occidente e che nell’Ayurveda è lo stato di non salute, è un metodo unico, applicabile in ogni tempo e in ogni luogo.

La differenza con la Naturopatia e con altre discipline è dunque legata alle conoscenze e all’impianto metodologico?

Vorrei sottolineare che l’Ayurveda ha una sua struttura completa che si compone di anatomia, fisiologia, analisi delle differenti costituzioni individuali e analisi attenta di come si possa perdere e ritrovare la salute. L’Ayurveda dalle sue origini, si componeva di otto differenti settori:

· Kayachikitsa - Medicina Interna
· Shalvatantra - Chirurgia
· Shalakia Tantra - Oftalmotorinolaringoiatria
· Kaumabarabhritya - Pediatria
· Agadatantra - Tossicologia
· Bhutavidya - Psichiatria
· Rasayana - Scienza del Ringiovanimento
· Vajikarana - Scienza degli Afrodisiaci

Ancora oggi, chi si accosta agli studi di Ayurveda, deve affrontare questi studi, anche se in parte restano pura conoscenza, perché ad esempio la Chirurgia non è stata più praticata, neppure in India, dopo la dominazione inglese, che rese illegale la pratica dell’Ayurveda. 
Bisogna poi considerare che, nel corso dei secoli, l’Ayurveda ha dato forma alla scienza del Ringiovanimento, anche se meglio sarebbe dire del rinvigorimento, con una serie complessa di pratiche e contestualmente ha acquisto e specializzato le tecniche del massaggio, che oggi vanno variabilmente sotto il nome di massaggio indiano o massaggio ayurvedico. 
La conoscenza, anche seria di queste pratiche e la professionalità con cui possono essere attuate, fa sì tuttavia che si abbia una conoscenza settoriale di modalità che possono anche diventare terapeutiche, ma resta una conoscenza settoriale, che non assurge a conoscenza del sistema Ayurveda e di conseguenza di quella che è la condizione umana nello stato di salute e priva di questo stato.
Lo stesso ragionamento è applicabile alla Naturopatia, infatti quand'anche essa appartenga a scuole sufficientemente serie, non ha una sua precisa completezza di conoscenze; è difficile trovare scuole di Naturopatia che diano un impianto solido di conoscenza anatomiche e fisiologiche; spesso c'è un po’ di tutto, ma tutto è un po’. 
La situazione però si aggrava quando sotto il nome di naturopatia ci si insinuano, come dicevo, le differenti pratiche per trattamenti specifici, vuoi massaggio o riflessologia, che sono ottime pratiche, ma restano pratiche, che quando esulano dal puro trattamento di benessere, dovrebbero essere guidate da chi conosce quali effetti positivi e fianco negativi esse possano dare. Ancor più discutibile è il voler far rientrare nella Naturopatia quelle metodiche che pur rivolgendosi ad una sorta di benessere, non hanno nessuna conoscenza di come il corpo si comporti; ad esempio, proporre diete non avendo una precisa conoscenza di come si comporti il corpo in certe situazioni può essere controproducente.
Tuttavia l’aspetto più rilevante che distingue l’Ayurveda dalla Naturopatia, è che l’Ayurveda ha una sua precisa ideologia cui riferirsi. L’Ayurveda segue una filosofia che indirizza l’uomo nella sua vita, non soltanto per stare in buona salute, ma per vivere in armonia con se stesso e con l’ambiente circostante e che gli chiede di darsi quegli strumenti necessari per la sua evoluzione spirituale.
Purushartha è il termine che racchiude questa filosofia, che parte dall’assunto che l’uomo è espressione dell’Assoluto, del divino potremmo dire, e che la sua essenza è spirito, e che per questo deve trascendere la sua fisicità per raggiungere il Divino-Assoluto, e riunirsi a Lui.
Da questa idea nasce la visione dell’uomo, la considerazione dello stato di salute, dei modi per mantenerla, perché è in essa che si realizza la liberazione, ovvero il fine ultimo di ritornare al Divino. E da questa idea nasce la visione dell’Universo e della Natura, all’interno della quale l’uomo è collocato e con la quale l'uomo deve costantemente colloquiare per il benessere di tutta l’umanità.
L’Ayurveda diviene così semplicemente lo strumento per adempiere un percorso esistenziale.

Come si colloca l’Ayurveda oggi nel contesto della Medicina?

Prima di ogni altra considerazione, occorre considerare la realtà entro cui si attua l’Ayurveda in Occidente; innanzi tutto l’Ayurveda non ha più la chirurgia, neppure in India, anche se da qualche parte è possibile trovare chi ancora soprattutto a livello ortopedico e traumatologico, qualcosa pratica, la realtà è che la chirurgia non c’è più; in secondo luogo, ad esclusione dell’India, non abbiamo ospedali ayurvedici (credo che anche l’esperienza dell’Ospedale ayurvedico di Londra sia stata archiviata), quindi nessun Pronto Soccorso. 
Da questi due dati si ricava una situazione di fatto, per cui l’Ayurveda si deve confrontare con limiti molto precisi, che ne contornano l’ambito entro cui può muoversi in Occidente.
Stabilito questo, occorre guardare ad altri aspetti del problema, perché abbiamo da una parte un sistema terapeutico radicato da secoli, e dall’altra qualcosa - e dico qualcosa perché ha senso dire così - che è giunto in Occidente, soltanto qualche decennio fa, meno di un secolo. Che ci fossero stati degli studiosi o degli intellettuali che si erano interessati dell’Ayurveda, soprattutto come aspetto della cultura medica, nei periodi precedenti, ha scarso rilievo. Ma quel che occorre soprattutto considerare è come essa sia giunta, perché lì nasce un vizio di forma che ne condiziona tuttora la sua identità. L’Ayurveda infatti giunge in Europa con la New Age, con alcuni personaggi sulla cresta dell’onda (Jane Fonda, i Beatles, Richard Gere) che faranno conoscere i guru del tempo (Maharishi, Osho, Sai Baba). L’Ayurveda giunge così insieme all’India mitizzata dalla New Age, ma meglio sarebbe dire giunge qualcosa dell’Ayurveda, una sua parte, la parte più legata alla filosofia che si poneva come alternativa allo stile di vita del consumismo occidentale. E, negli anni immediatamente successivi a quella epopea, Ayurveda, Yoga, Meditazione, si propongono proprio come luoghi, dove andare a riprendersi dai ritmi che la società impone e dallo stress che ne consegue. Separati e alternativi alla società. Il vizio di forma di cui parlavo è questo; aver dato un’immagine che collocò l’Ayurveda come un’alternativa ad una concezione di vita, intesa soprattutto come possibilità di rigenerarsi periodicamente dalle fatiche del quotidiano. Per questa ragione si ebbe la diffusione di alcune pratiche dell’Ayurveda, a cominciare dal massaggio, così come si introdusse la pratica dello Yoga, spesso senza conoscere nulla della sua teoria. Soltanto nella generazione successiva, grazie a tanti autori di testi, e soprattutto all’opera di Maharishi, si ebbe una visione più completa dell’Ayurveda, e dunque anche delle sue offerte, non più limitate all’esercizio di alcune sue pratiche. Tuttavia per molte persone ancora oggi l’Ayurveda è considerata un valido aiuto per ristabilirsi durante un lungo soggiorno in qualche centro lontano dalla città, ma non è, e, secondo loro, non potrebbe diventare, uno stile di vita.
Tuttavia, da questo procedere verso l’Occidente, nel segno della New Age, il vizio di forma ha connotato l’Ayurveda alla stregua di altre pratiche, che in quel tempo sono assurte a fama, prive talvolta di qualunque impianto metodologico o di qualunque storia, cosìcché contestualmente è maturata una diffidenza da parte della scienza e della medicina, e, malgrado fin dal 1978, l’Organizzazione Mondiale della Sanità, nella dichiarazione di Alma Ata sull’assistenza sanitaria primaria, abbia conferito all’Ayurveda un riconoscimento ufficiale, la diffidenza non è molto mutata, neppure dopo le risoluzioni del 2003 e poi del 2009 relative alla necessità di regolamentare le medicine tradizionali, come l’Ayurveda, all’interno delle politiche sanitarie nazionali.

Il sentiero dell’Ayurveda

Potrebbe quasi sembrare superfluo parlare di Ayurveda nella attuale società, in poco più di 25 anni, l’Ayurveda è diventata patrimonio dell’Occidente; Richard Gere, i Beatles, Jane Fonda, con i loro guru Osho e Maharishi, sono stati i catalizzatori di un’attenzione popolare che ha fatto dell’Ayurveda una sorta di panacea di tutti i tormenti derivanti dallo stress, di cui l’Occidente, che ha messo il suo dio al polso, è preda. 
Chi oggi non ha conoscenza del massaggio ayurvedico o della dieta ayurvedica, e allora cos’altro allora ci sarebbe da dire? Eppure raccolgo la sfida, e magari comincio a parlare dell’etimologia del nome. 
Da vecchio professore di lingue classiche, mi piace sempre partire dai nomi delle cose, e dal nome Ayurveda mi pare che forse si possa ancora dire qualcosa.
Ayurveda è una parola sanscrita formata da due parole: Ayus e Veda; Ayus significa Vita e Veda significa Conoscenza, Scienza, Sapere, ma anche Percezione; è la radice di quel verbo greco Voida, che esiterà nel latino Video. 
Nella più parte delle traduzioni è invalso l’uso di tradurre scienza. Quindi Ayurveda, scienza della vita. Fu soprattutto la cultura anglosassone prima e germanica poi, che avviarono questa lettura nel XVIII/XIX secolo, quando però scienza valeva ancora come disciplina che aveva trovato una sua sistemazione, e non aveva ancora assunto i connotati che il termine scienza ha acquisto nel XX secolo; l’Ayurveda così interpretata diviene un sistema e come tale spesso viene intesa, un sistema, una scienza, per cui lascia presupporre che abbia anche delle precise indicazioni valide per tutti.
Ora trascuro momentaneamente tutta una serie di considerazioni su questo aspetto, per soffermarmi invece sulla più corretta traduzione, che, in base anche al fatto che il termine Veda nasce all’interno della cultura Vedica, è necessariamente Conoscenza o Sapienza. 
Conoscenza che vuole dire esattamente?
“Conoscenza” è un termine dalle molteplici sfumature e da vari significati, che possono mutare a seconda del contesto, ma sempre ha precisa attinenza con i concetti di significato, informazione, istruzione, comunicazione, rappresentazione, apprendimento e persino stimolo mentale. È differente dalla semplice informazione: la conoscenza è una particolare forma di sapere, dotata di una sua utilità. Mentre l’informazione può esistere indipendentemente da chi la possa utilizzare, e quindi può in qualche modo essere preservata su un qualche tipo di supporto (cartaceo, informatico, ecc.), la conoscenza esiste solo in quanto c’è una mente in grado di possederla.
Fondamentalmente la Conoscenza esiste solo quando un’intelligenza possa essere in grado di utilizzarla.
Nella nostra filosofia occidentale, si descrive spesso la conoscenza come informazione associata all’intenzionalità. 
Lo studio della conoscenza in filosofia è affidato all’epistemologia (che si interessa della conoscenza come esperienza o scienza ed è quindi orientata ai metodi ed alle condizioni della conoscenza) ed alla gnoseologia (che si ritrova nella tradizione filosofica classica e riguarda i problemi a priori della conoscenza in senso universale).
Ecco spiegato dunque perché preferisco conoscenza della vita a scienza della vita, perché l’Ayurveda chiama in causa diretta chi vuole fruirla, non è soltanto un catalogo di informazioni, un libro di ricette, è un patrimonio che si rivolge ad ognuno di noi da millenni e dovunque noi siamo, ma non per fornirci indicazioni, ma perché ognuno di noi la conosca, la possa fare propria in base alle sue personali condizioni, e solo allora potrà viverla, camminare sul suo sentiero. 
L’Ayurveda è ben oltre i suoi massaggi e le sue ricette culinarie, e insisto sul ben oltre; celiando potrei dire che sapere come si cucina l’uovo alla coque o come farsi la tisana di zenzero non significa che siamo cuochi. E vorrei anche aggiungere che raccogliere informazioni su come si gioca a tennis, non significa saper giocare a tennis.
Insisto su questo, che potrebbe sembrare un giocare con le parole, ma non lo è, è una questione di sostanza e di senso. 
Conoscere pezzi di terapie ayurvediche o aver tratto qualche indicazione dietetica, aver raccolto informazioni non solo è riduttivo, ma è al di là dell’Ayurveda, in quanto usarne terapie o utilizzarne diete fa parte di mode transeunti e così come oggi si usano queste, domani se ne useranno altre, senza essere stati neppure sfiorati dall’essenza dell’Ayurveda.
Un piccolo assaggio.
Apriamo il più antico testo di Ayurveda, il Charaka Samhita, datato tradizionalmente intorno alla fine del II millennio a.C.. Si apre con il primo argomento, che è la durata della vita. Dopo aver spiegato che l’Ayurveda fu ricevuta da Prajapati, il signore degli umani, direttamente da Brahma, principio del Creatore, fu da lui consegnata, quando apparvero le malattie, causa di numerosi ostacoli a vivere in equilibrio, a correggere gli errori, a praticare digiuni e astinenze, allo studio, alla giusta condotta sociale, ai grandi saggi, che si erano rivolti a lui Prajapati, recandosi in un luogo segreto dei contrafforti dell’Himalaya per incontrarlo, a chiedere cosa fare per l’umanità, afflitta dalle malattie.
Ora, da queste breve resoconto ristretto, che tuttavia è descritto nei primi 14 versetti del Charaka Samhita, si possono già dedurre due concetti di rilievo: il primo è che i grandi saggi per ottenere l’Ayurveda si erano messi su un sentiero, metafora del viaggio che ognuno deve compiere per entrare in una dimensione diversa, che lo aiuti ad avere consapevolezza di sé; il secondo è che vivere in equilibrio, e quindi evitare le malattie, è una responsabilità non solo individuale, ma sociale, e che la malattia genera ostacoli non solo all’individuo, ma alla giusta condotta sociale.
Ma cosa significa vivere in equilibrio, che è la traduzione del termine sanscrito Svastha, che potremmo anche tradurre essere in bolla, ed anche essere contenuti in sé, ovvero non essere preda di ciò che proviene dall’esterno di noi. 
A fornirci la spiegazione ci pensa Charaka, pochi righe dopo, e siamo nei primi 16 versetti della sua opera, che potremmo chiamare la chiave interpretativa di tutta l’opera.
Tre sono i principi fondamentali dell’esistenza terrena (ma il termine principi potrebbe essere anche tradotto come valore o come pilastro o come fondamento - cambiano le sfumature, ma non il senso): il primo è il rispetto delle regole per restare in armonia con l’ordine universale (Dharma); l’Uomo è all’interno di un complesso sistema, che è l’Universo, che si manifesta all’Uomo nella sua componente microcosmica: ognuno vive in un microcosmo, e tutti insieme nell’Universo; questa comunione di appartenenza dell’Uomo con l’Universo, si fonda su una serie di regole che potremmo chiamare di buona convivenza; ma significa anche che l’Uomo non può essere considerato se non all’interno dell’Universo. Credo di poter affermare, senza ombra di dubbio, che si tratta della prima definizione dell’Olismo, e non mi pare poco. Il secondo principio è la realizzazione e la gestione dei beni materiali (Artha): senza beni materiali non si può governare la propria vita, di conseguenza non si può adempiere a quelle regole per restare in armonia con l’Universo, soprattutto non si può pensare alla propria salute, che è prima di pensare alla cura delle malattie. 
Su questo tema, Charaka ritornerà in più occasioni per esplicitare questo concetto, per insistere sul fatto che occorre avere i beni materiali per poter provvedere ad un’alimentazione corretta e ad uno stile di vita adeguato. La cura, quasi maniacale, per la scelta dell’alimentazione adatta alla propria costituzione fisica, all’età, al clima e all’ambiente in cui si vive, che l’Ayurveda propone, richiede possibilità di scelta, che si fonda sulla capacità economica. 
Non si parla qui di arricchimento, ma di realizzare quel livello di tenore economico, che consenta questa prima fondamentale capacità di scelta, perché sono tre le risorse che abbiamo per vivere, il respiro, il sonno, il cibo; possiamo imparare a respirare, e per questo si è costituito il ricco programma del Pranayama, tecniche di respiro, ma non possiamo scegliere la qualità del Prana, ovvero del respiro che respiriamo; e questo aspetto è vero proprio e soprattutto nella nostra società; il sonno dipende da molti fattori, la più parte esterni da noi, che non siamo in grado di controllare; e dunque è soltanto sul terzo, se possiamo permettercelo, che si può esplicare intera la nostra capacità di scegliere. Ma una buona alimentazione da sola non è sufficiente, in quanto si deve inserire in uno stile di vita, a cominciare dal rispetto del ritmo del giorno, delle stagioni, e dei mutamenti che l’età produce. Porre la giusta attenzione a tutte queste variabili, impone necessariamente che si sia in grado di farlo, ovvero si devono avere i mezzi materiali.
Ma la nostra vita, ne era profondamente consapevole l’Ayurveda, non si esaurisce in queste attenzioni, perché l’uomo è un animale sociale complesso, che si accoppia e procrea, e per questo matura dei legittimi desideri; il terzo principio è questo, la soddisfazione dei legittimi desideri per mezzo dei beni che legittimamente si sono acquisiti (Kama). 
Solo quando questi tre principi siano attuati è possibile orientare la nostra mente per il suo obiettivo fondamentale, che potremmo definire IV principio, ma in realtà altro non è che la logica conclusione dei primi tre principi, ovvero realizzare qualcosa di più alto dei doveri e dei beni accumulati, per indirizzarsi sul sentiero della spiritualità, che consenta l’emancipazione dalla dualità, il superamento del Karma, la liberazione dalla catena dell’incarnazione, per riunirsi allo Spirito Universale (Moksha).
E allora, ripetiamo la domanda, che cosa significa Svastha? Significa essere radicati in se stessi, realizzati sul piano sociale, in armonia con la Natura, con il gruppo che ci circonda, e con il tempo per poterci dedicare alla nostra evoluzione spirituale, che è il tempo per la pratica quotidiana dello Yoga, che rappresenta lo strumento per l’evoluzione spirituale.
E qui, si apre necessariamente una considerazione: Ayurveda e Yoga sono due facce della stessa medaglia, e una non vive senza l’altra, l’Ayurveda è il sostegno per il corpo, Yoga è il sostegno per lo spirito. 
Cosicché la pratica di qualche porzione delle tecniche ayurvediche, scisse dall’Ayurveda nella sua complessità, e dallo Yoga, pur restando piacevoli pratiche, non può in nessun modo rispondere ai principi dell’Ayurveda; e contestualmente la pratica dello Yoga senza il supporto dell’Ayurveda, resta un valido esercizio fisico rilassante, nulla di più.
Radicarsi in sé, vuole inoltre indicare la radice, la radice di noi stessi, che noi dobbiamo conoscere, perché è di lì che noi siamo quello che siamo. Conoscenza della radice, che è dentro di noi, costituita da essere individuo, unico, irripetibile, nato da due genitori, individui irripetibili, in un tempo e in uno spazio definiti. 
E tutto questo che definisce dunque l’Ayurveda come uno strumento, che ognuno, conoscendosi, dovrà adattare a se stesso; perché è differente vivere nel clima della Liguria rispetto a chi vive all’equatore o al polo, perché è stata differente la mia vita, essendo nato da due genitori normali cittadini, rispetto a chi è nato da due genitori con immense fortune o grande potere; perché è diversa la mia vita e diverso il mio corpo ora che ho l’età che ho, rispetto a quando avevo quindici anni. 
Ecco perché non può esistere una dieta ayurvedica, che presuppone che ci sia un’uguaglianza di fondo fra gli individui. 
L’Ayurveda dice cosa fa bene e cosa fa male alla nostra costituzione, relativamente a dove siamo ambientati, all’attività che svolgiamo, all’età che abbiamo, ecc., dopodiché si deve andare avanti da soli, sul nostro personale sentiero, indipendentemente da dove ci troviamo. 
L’Ayurveda è una sorta di cassetta degli attrezzi, che fornisce gli strumenti per conoscere noi stessi, come siamo fatti, la nostra costituzione, conoscere l’ambiente che ci circonda, per incamminarci sul sentiero della conoscenza, non diventare succubi di una scienza, esserne parte attiva. In alcuni casi possiamo aver bisogno di un Nishnat, uno specialista, il quale potrà intervenire nei momenti in cui la malattia ha preso il sopravvento, ma poi non potrà fare altro che indirizzarci affinché ci costruiamo la nostra cassetta degli attrezzi, il nostro stile di vita, all’interno del quale ci sarà l’alimentazione possibilmente adatta alla nostra costituzione e quant’altro ci aiuti a stare in buona salute.
L’Ayurveda è un sentiero per individui che siano pronti ad assumersi la responsabilità di se stessi, all’interno del mondo in cui sono collocati.

AYURVEDA HIC ET NUNC

La scelta di questo titolo, che accosta il termine sanscrito Ayurveda e i termini latini hic et nunc, ovvero qui e ora, indica la mia intenzione di trattare dell’Ayurveda qui, nel nostro mondo di tradizione classica, e ora, in questi tempi, in questo nostro presente.
E, seguendo il pensiero classico, al quale io, come tanti che hanno fatto propria l’Ayurveda e tanta parte della cultura dell’India, tuttavia appartengo per tradizione, per educazione, direi per memoria genetica, scelgo di cominciare ad analizzare il nome; nome omen, dicevano i latini, ovvero nel nome si racchiude l’essenza della cosa in sé, o anche nomina sunt consequentia rerum, i nomi esprimono ciò che naturalmente sono.
Ayurveda dunque, da noi in questo nostro Occidente.
Che cosa significa? Quale essenza racchiude?
Il più delle volte - ahimé - si utilizza questo nome in modo riduttivo, per indicare solo una delle sue, pur rilevanti, componenti, di solito il massaggio, la dieta, lo yoga.
Ma in questo caso la parte non vale per il tutto.
Non è difficile valutare quanto sto dicendo, basta piazzarsi comodamente seduti su internet - la grande inesauribile biblioteca dell’uomo contemporaneo - aprire un motore di ricerca qualunque, e immettere la parola chiave Ayurveda.
Le prime pagine sono quasi esclusivamente elenchi di centri di massaggio, di yoga, di meditazione, di diete ayurvediche, fra le più fantasiose, di centri vendita di prodotti, erboristici prima di tutto, ma non solo, oli e tavoli da massaggio, ecc.
Parola magica Ayurveda, sotto la quale vanno alcune delle componenti dell’Ayurveda e tutto l’indotto commerciale che ne consegue.
In alcuni siti, con una pretesa di serietà maggiore, c’è una pagina dedicata alla filosofia dell’Ayurveda; poche righe, di solito accompagnate da uno dei mille test possibili perché ogni lettore-visitatore possa individuare la sua Prakriti, qualche cenno sui Dosha e sulle minimali terapie - universali - per mantenerli in equilibrio.
E già qui un primo equivoco si fa strada, perché il Dosha in sé è una cosa, e il Dosha che si incarna nella Prakriti di un individuo è un’altra, deve fare i conti con gli altri Dosha, e con la Natura tutta, che si esprime in un habitat climatico, in una tradizione genetica, in una cultura, in una possibilità economica, sociale, religiosa.
Il secondo equivoco è che le pagine, oltre la home page, hanno il più delle volte accessi minimali; mi piacerebbe infatti conoscere oltre agli accessi al sito, che di solito generano la posizione nel motore di ricerca, anche gli accessi alle singole pagine, e valutare quanti, oltre all’accesso alla home page, entrano poi nella pagina della filosofia e quanto realmente vi si soffermino.
Da questa prima superficiale ricognizione possiamo trarre la prima constatazione: l’Ayurveda, in quanto tale, ovvero filosofia di vita, pratica di suggerimenti per conoscersi, per stare meglio, in buona salute, quindi tutto quello che noi occidentali chiamiamo prevenzione, e in quanto terapia, ovvero precisa valutazione dei modi e dei rimedi atti a rimettere a posto gli squilibri dei Dosha, non ha quasi posto, se non in alcuni siti che sono più che altro didascalici, e che danno dell’Ayurveda un profilo così come lo offrono di altre terapie del benessere, come va di moda dire oggi, o naturali o olistiche, come invece andava più di moda dire nell’ultimo decennio del secolo scorso; l’Ayurveda dunque alla pari del Reiki, dello Shiatsu, della Medicina Antroposofica, ecc., penalizzando l’Ayurveda quanto meno per un diritto di millenni.
Così, alla comune percezione dell’homo occidentalis, l’Ayurveda appare come una delle tante novità apparse all’orizzonte nell’età della New Age, una delle tante mode possibili, una delle varianti dolci all’invasività della medicina allopatica.
L’Ayurveda non è questo, quanto meno non è soltanto questo!
Se entriamo nel dettaglio delle componenti di cui sopra accennavo, la situazione si offre a numerosi spunti di riflessione, e non certo in chiave migliorativa.
Affrontiamo allora il massaggio!
A lui, anche per diffusione significativa in questo mondo del benessere e della possibilità di stare bene, compete il primo posto.
Se volgiamo il nostro sguardo in giro, quel che appare immediato, anche allo sprovveduto, è la totale scambiabilità fra gli aggettivi del sostantivo massaggio, indiano e ayurvedico, usati con la massima indifferenza.
Può darsi che questa interscambiabilità abbia una sua legittimità, in un mondo in cui la precisione linguistica fa dovunque difetto, ma è innegabile che quando Sushruta codifica il massaggio in chiave terapeutica, e quindi lo struttura secondo i principi e le conoscenze dell’Ayurveda, a fini terapeutici, sta utilizzando quanto del massaggio faceva parte della tradizione indiana, e dunque siamo di fronte alla codificazione di un massaggio indiano in chiave terapeutica, finalizzato a riequilibrare le energie in modo mirato e che diventa massaggio ayurvedico, il quale appunto utilizza una liturgia precisa di movimenti, che è quella e non un’altra, che utilizza olio, oli essenziali, decozioni e quant’altro, con una finalità che è terapeutica e che va dal semplice riequilibrio di uno dei Dosha, piuttosto che di un altro, o che mira a dare sollievo in una particolare patologia.
Ne deduco che non sia accettabile chiamare ayurvedico un massaggio effettuato in un centro di estetica, che manipola la persona con un olio tridoshana, acquistato in uno di quei centri ai primi posti dei motori di ricerca di cui si parlava e che, sovente, non ha neppure una sua precisa liturgia.
In questi ultimi due anni, per curiosità, sono entrato in svariati centri dove si pratica abyangam, massaggio ayurvedico, nella mia città, in Italia, in Francia, in Croazia, ecc., e ne ho dedotto quello che l’uomo comune inevitabilmente deduce, ovvero che il massaggio indiano o ayurvedico è il massaggio più fantasioso che ci possa essere: può essere effettuato iniziando con la persona prona o supina, dai piedi o dalla testa, può durare 20’ minuti o un’ora, può essere molto dolce o rilassante o può essere quasi doloroso, può essere un continuo sfregamento o può prevedere stiramento di dita, di arti, rotazioni del collo e della testa e così via e chi più ne ha, più ne metta.
In due anni in un solo centro di Parigi, ho fatto un massaggio con olio, che ha seguito la liturgia del massaggio descritto dai testi, in un ambiente sereno, con un tocco appena accennato di musica, con una sapiente e dolcissima mano che accarezzava dove si accarezza, strofinava dove si strofina, premeva sui punti deputati ad essere premuti, impastava e sollecitava i muscoli con le giuste vibrazioni. Una volta. L’esperienza di partecipare ad una manifestazione come il SANA di Bologna, è in questo senso altrettanto  illuminante: si può vedere come centri che praticano questo tipo di massaggio mostrino massaggi assolutamente differenti l’uno dall’altro, e quel che è più divertente o inquietante,  è che ognuno ha una sua ideologia, questo è il vero massaggio abyangam, questo è l’unico massaggio della tradizione del Kerala, il vero massaggio dell’India del Nord, del Sud, dell’Ovest, dell’Est, ecc. Vera e propria fiera delle vanità.
La domanda che viene spontanea, per chi non sappia nulla di massaggio ayurvedico, e che pensa che l’Ayurveda sia quello, in quanto la riduttività di cui parlavamo prima, gli ha già dato l’idea riduttiva che l’Ayurveda altro non sia se non massaggio, è la seguente: quale è, se c’è, un vero massaggio ayurvedico? E ancora, la varietà, per quanto di solito gradevole - ma a chi non fa piacere un massaggio qualunque esso sia - non è per caso frutto di estemporaneo tecnicismo del massaggiatore?
La domanda che mi sono fatto e che qui pongo è se esiste un modo per tutelare un nome, forse per brevettare il massaggio indiano e o ayurvedico, o se esistono altre forme di protezione almeno per quanto attiene al massaggio terapeutico, parte fondamentale del Panchakarma. Evitare insomma che lo sprovveduto possa per antonomasia trasferire all’Ayurveda tutto quello che è di una parte, ovvero in questo caso, tutta quella che è la vaghezza e la fantasiosità del massaggio al complesso sistema dell’Ayurveda.
E veniamo alla dieta, alla  così tanto pubblicizzata dieta ayurvedica, panacea fra tutte le diete possibili, ovviamente in primis per dimagrire, ossessione della civiltà occidentale, che è grassa semplicemente perché mangia troppo, troppo di corsa, e trangugia troppe porcherie.
Qualunque rivista per donne, ma non solo, ha avuto almeno una volta nell’ultimo anno uno spazio, più o meno rilevante, per la dieta ayurvedica.
Se torniamo al nostro Internet, vera biblioteca dell’uomo contemporaneo, il panorama che ci offre è sconfortante, in un solo sito indicato in prima pagina, quello di Amadio Bianchi, si dice a chiare lettere, prima di addentrarsi in qualsiasi altra spiegazione, che l’alimentazione corretta è quella più adatta alla propria costituzione.
Come dire che è l’unico di quelli nella prima pagina di un motore importante di ricerca, in cui si parta dall’Ayurveda, che parte dal suo pilastro fondamentale, che la distingue con certezza da ogni altra forma di terapia, ovvero che ogni individuo, su questa terra, è un caso unico, irripetibile nel tempo e nello spazio, e che ognuno ha la sua alimentazione, le sue malattie, compreso la sua obesità, e la sua terapia.
Per correttezza aggiungerò che in alcuni siti si trova l’indicazione di eseguire prima il test e di affidarsi poi, in base al risultato del test, alla scelta fra la dieta appropriata per Vata, Pitta e Kapha.
Ma vorrei anche aggiungere che fra gli infiniti Vata possibili, ognuno ha il suo Vata e soprattutto, al di là di una generica indicazione, non si può andare, perché ogni Vata vive in luoghi differenti, svolge professioni differenti, ha un differente livello di cultura e di stato sociale, per non parlare dell’età e dello stato di salute.
Non sono forse queste le indicazioni che provengono dall’Ayurveda più antica? Non è forse l’Ayurveda che ci sollecita a tener conto, nel momento in cui stabiliamo un piano terapeutico, dopo l’esame della Prakriti e l’anamnesi e l’indagine diagnostica, a valutare la provenienza del nostro paziente, intendendo le sue origini, il suo livello socio culturale e spirituale, e l’habitat in cui vive? Rinunciare a queste coordinate è declinare dall’Ayurveda, limitarsi a offrire una dieta che possiamo chiamare ayurvedica alla stessa stregua di come la potremmo chiamare del fantino, del minestrone, dissociata, a punti, ecc.
E allora, ci sarebbe da chiedersi davvero che cosa una dieta ayurvedica possa fare per un uomo occidentale che esce da casa la mattina e vi torna la sera, e che ha disposizione cibo precotto, preconfezionato, e soprattutto pochissimo tempo per consumarlo, e molta voglia di cibo dolce o di cibo salato e speziato; basterebbe infatti l’analisi dell’ossessiva ricerca dei gusti dolce salato piccante da parte della più parte dei consumatori di cibo veloce in Occidente, per capire quale sia il suo Dosha disturbato e per sapere che non sarà la dieta a salvarlo, ma la modificazione dello stile di vita.
Quale potere può avere infatti una mera variazione di qualità del cibo, in una vita che non cambia, o per scelta o per impossibilità?
La dieta proposta dalla tradizione ayurvedica, è una delle componenti di un ben più vasto progetto che coinvolge lo stile di vita; da sola, isolata dal suo contesto, è improponibile, è inutile, e alla fine inefficace. Se anche in questo caso, come per il massaggio, la parte vale per il tutto, in tempi brevi, passata la moda, diventa superata anche la dieta ayurvedica, ma il discredito cadrà poi su tutta l’Ayurveda.
E vorrei aggiungere che su questo punto, lo stile di vita, l’Ayurveda per l’uomo occidentale si è rivelata abbastanza latitante, come se avesse timore, per bocca di molti suoi esponenti, di dichiarare che la malattia e le malattie dell’Occidente, obesità compresa, sono frutto di un errato stile di vita, non certamente o non soltanto di un alterato metabolismo, conseguente ad una alimentazione inappropriata.
L’Ayurveda, per bocca di tanti suoi portavoce, si è già fin troppo adattata all’Occidente, quando offre di sé qualche carta, ma non osa giocare intera una partita, per timore di non avere consenso, audience, un pubblico pronto a seguirla, come tante altre novità esotiche e altrettanto pronto ad abbandonarla per nuove novità.
E, lasciatemi soffermare un momento sui test per individuare la propria costituzione, alla ricerca della Prakriti: possono essere un piacevole momento di svago, ma dalla piacevolezza all’attendibilità ce ne passa.
Sappiamo tutti che ognuno di noi ha di sé un’immagine, che di solito non corrisponde alla realtà.
E, per entrare nel merito, sappiamo anche che i vatici, tendenzialmente, nel rispondere a quesiti dalle molteplici variabili, ci si perdono, non sanno mai bene fino in fondo quale delle possibili risposte corrispondono ai loro mutamenti, e i pittici peraltro tendono ad essere sbrigativi, veloci, mirano al risultato finale, e infine i kaphici dovrebbero avere motivazioni così forti per portarlo avanti fino in fondo, che di solito essendo kaphici non hanno.
Una analisi della propria costituzione ha senso se un individuo ha incominciato a coglierne il significato, se ha cominciato a conoscere e ad ascoltare il suo corpo, a capire quando esso, pur avendo raggiunto una sorta di equilibrio, presenta dei sintomi sui quali vale la pena di soffermarsi a riflettere.
Buona parte dei miei pazienti afflitti da stitichezza, mi dicono che hanno raggiunto una loro normalità, anche se l’intestino funziona a giorni alterni o due volte a settimana, per loro che sono transitati talvolta verso stitichezze a prova di nitroglicerina, aver raggiunto, con l’uso di lassativi o di supposte, quel risultato, è un buon risultato, ma non lo è in termini assoluti, e così gli esempi si potrebbero moltiplicare; a proposito di pelli inaridite. la risposta più facile e comune che molti pazienti si danno è che il disturbo è la conseguenza di saponi sbagliati, un errore del profumiere; non certo la manifestazione di un disagio, che proviene dall’interno del loro corpo; d’altra parte, in una società che ci abitua costantemente a vedere la responsabilità dei nostri mali, nei virus, nei batteri, nelle cose che entrano in noi, o che ci sfiorano, come tessuti inadatti alla pelle, e mai appartengono alla nostra complessa individualità fatta di corpo e di mente, ovvero di emozioni, di stile di vita, ecc., è difficile proporre un’altra visione del disagio, ma non per questa difficoltà si deve declinare da uno dei pilastri dell’Ayurveda, che indica la causa della malattia, prima di tutto, in uno squilibrio della mente, in un eccesso di desideri o di paure, che poi sono le cose che non desideriamo.
Cogliere il disagio che ci affligge, come un nostro disagio, è operazione che richiede un riesame della nostra vita, della nostra mente, dei nostri desideri, dei nostri bisogni, e non tutti siamo sempre disponibili a compiere questo percorso, ma è questo invece che in ultima analisi ci chiede, e che ci può aiutare a fare  l’Ayurveda.
Proporre il test sulla nostra Prakriti, senza nessuna altra indicazione, è un modo come un altro di stare dentro ad un sistema rapido e sbrigativo, sintomatico, della civiltà occidentale e della sua medicina, sbrigativa sintomatica e fiduciosa che solo ciò che entra nell’uomo è male, che l’uomo nella sua fisicità protetta da vitamine e minerali è sano, ma fragile di fronte agli eventi esterni. Filosofia questa che per certi versi non è neppure più condivisa da tanta parte della medicina allopatica, la quale di fronte all’epidemia del virus da immunodeficienza, ha da tempo capito che i più deboli di fronte a questa aggressione sono i tossicodipendenti e quanti si sono sfibrati negli eccessi.
Per tutte queste ragioni, proporre una scheda sulla propria Prakirti, una dieta ayurvedica, o un massaggio simil indiano o ayurvedico, è soltanto qualcosa che attiene vagamente all’Ayurveda, al suo complicato catalogo di cibi, erbe e spezie, da utilizzare con sapiente discernimento; in particolare la dieta proposta è per lo più intesa come qualcosa d’universale, adatta a tutti, a prescindere dalla costituzione, dalla stagione, dal clima, dall’obiettivo che si voglia raggiungere, e destinata per ciò stesso a diventare una curiosità, magari da sperimentare per qualche giorno, ma per dichiararla poi inefficace o impraticabile.
Si possono trovare, navigando su internet o spulciando libri, cose veramente singolari, e per certi aspetti anche destinate a far perdere l’entusiasmo, persino a zelanti adepti dell’Ayurveda.
Complicati elenchi di erbe e spezie, ortaggi, frutta, da acquistare - e taluni di questi alimenti sono introvabili dalle nostre parti, in partibus occidentis, se non in alcuni negozi specializzati delle grandi metropoli, tutto per iniziare una dieta depurante; solo a leggere e a mettersi alla ricerca dei prodotti, soprattutto se non si abita in una metropoli, scoraggia chiunque; così questa bella dieta, che potrebbe certamente essere d’aiuto a un sacco di gente se solo ne cogliessero la filosofia che la anima, ovvero mangiare quel tanto che ti basta, fare attenzione al ciclo stagionale, al clima, al rapporto con il cibo, alle emozioni che lo sottendono, diviene esercizio arduo, e alla fine si perde un’occasione di approccio con una parte dell’Ayurveda e che potrebbe e dovrebbe essere se mai soltanto un veicolo per arrivare al tutto, all’Ayurveda nella sua totalità.
Ma vi è dell’altro: nella maggior parte dei testi, che trattano del cibo e propongono diete a diverso titolo, si propone sostanzialmente quella che è la dispensa indiana, con le sue erbe, le sue spezie, i suoi alimenti. Tutto questo fa sì che si propongano cibi e gusti, Rasa, che non appartengono al gusto occidentale.
Per cui, dopo la difficoltà di reperire i prodotti, il non semplice approccio con l’utilizzazione di un numero talvolta elevato di spezie, la laboriosità della preparazione di alcune ricette, che è l’antitesi di quanto l’uomo occidentale concepisca come preparazione del cibo, l’incontro con il gusto determina spesso l’abbandono, la rinuncia a quel tipo di alimentazione.
Il gusto è una memoria affettiva ed emozionale, identificatorio di una appartenenza sociale, etnica, religiosa.
L’Ayurveda ha insegnato ad ogni terapeuta che quando ha davanti il suo paziente, prima di stabilire un progetto terapeutico, deve chiedersi chi sia quella persona e, nel chi è, ci sta la considerazione della Prakriti, dell’età e della sua appartenenza, ovvero degli elementi che connotano la sua identità, appunto l’appartenenza religiosa, etnica, culturale, sociale.
Stabilito questo perché non ci sforza di offrire ai pazienti occidentali una dieta che sia costruita sui loro gusti, sulla memoria genetica del cibo, una dieta, che non li costringa a vivere come se fossero figli d’indiani, perché non lo sono.
E questa osservazione ci porta ad un’altra considerazione, ovvero all’incapacità di adeguare in modo serio quello cha l’Ayurveda ha stabilito per un certo tipo di utenti ad un altro tipo di utenti, ovvero avere attenzione per un pubblico di potenziali consumatori che appartengono ad altra cultura alimentare e che hanno un altro gusto e un’altra memoria della convivialità.
Non è difficile: lo studio delle erbe occidentali in chiave ayurvedica, che ho iniziato quando ho steso la mia tesi per l’Accademia Ayurvedica di Pune, ha dimostrato che si possono utilizzare erbe corrispondenti al gusto occidentale, senza necessariamente ricorrere a erbe per noi esotiche e dal gusto non sempre accettabile, così come la varietà dei dal indiani  trova analogie  con i nostri legumi, non è dunque necessario indaffararsi oltre modo  per trovare un tipo di dal, quando abbiamo a disposizione lenticchie e piselli secchi di varia qualità.
Ecco allora che una rigidità nell’offrire un prodotto diviene poi una barriera, che può essere facilmente superata. È singolare però che da una parte l’offerta di dieta ayurvedica quasi universale non esca dal limite dell’esotico, mentre per il massaggio vi sia stato un adattamento fin troppo zelante ai gusti dell’uomo occidentale.
L’Ayurveda ha come imperativo quello di guardare e valutare la provenienza del potenziale paziente, e questo vuol dire che occorre valutare i termini della proposta all’uomo occidentale, se vogliamo che, poco per volta, colga il senso profondo della filosofia che anima l’Ayurveda, e non la veda solo come uno dei tanti esotismi orientali dell’era dell’Acquario e della New Age, con le quali l’Ayurveda non ha da spartire alcunchè; altra è la sua storia, la sua filosofia, l’afflato mistico che la pervade.
E veniamo al terzo aspetto, Yoga.
Credo di non dire certamente qualcosa di nuovo quando dico che la più parte degli insegnanti di Yoga, di Ayurveda non sanno nulla. Lo Yoga è altro rispetto all’Ayurveda, anzi dirò di più, navigando su Internet, si scopre che lo Yoga è talvolta in siti che si occupano di omeopatia, di medicine naturali, ecc. Nei siti in cui si parla della filosofia dello Yoga si fa riferimento all’Induismo e ai Veda, in senso assolutamente generico, ma un riferimento all’Ayurveda è spesso totalmente assente o carente.
A me sembra che Yoga e Ayurveda siano già divenute due realtà separate e distinte, provenienti da un unica fonte, ma a sé stanti, come se l’una non fosse la parte spirituale di quella fisica, e l’altra la parte fisica di quella spirituale; separarle significa separare corpo, mente, spirito, trattare queste tre componenti come se non fossero la stessa essenza che si esprime a tre differenti stadi; è in ultima analisi la negazione dell’Ayurveda.
Ayurveda è, prima di essere una medicina una filosofia, una proposta di uno stile di vita, e quando è medicina è, come afferma Svoboda, un’arte che diventa guarigione solo quando il guaritore è coinvolto.
La prima domanda che mi sono posto e che pongo a chi mi leggerà è questa: che tipo di coinvolgimento si intende?
Svoboda ha ovviamente una sua risposta, dice infatti che il vero medico è un maestro che aiuta il paziente a lavorare sui problemi a tutti i livelli, il vero medico utilizza l’anamnesi, l’esame diagnostico per intuire le particolari possibilità del paziente e stabilire una strategia individuale di guarigione.
Il vero medico è un maestro, presuppone quantomeno che il paziente sia un allievo, allievo di una filosofia di vita e di una disciplina che lo porti a riconsiderare il suo stile di vita.
E allora mi chiedo come sia possibile fare questo quando come maestri si è disponibili saltuariamente, talora una o due volte l’anno, quasi esclusivamente per consegnare una lista di rimedi? Eppure questa è una realtà, che tutti conosciamo, alla quale dolorosamente contribuisce talvolta l’India stessa, che spedisce in Occidente i suoi maestri, che ricevono persino in aeroporto, fra uno scalo e l’altro, anche cento persone in un giorno.
L’Ayurveda non fa miracoli, ed è stata, nel tempo, estranea, a forme di mistici guaritori.
Di quale Ayurveda stiamo parlando, quale Ayurveda pratichiamo quando incontriamo i nostri pazienti una o due volte l’anno, e ai quali diamo una mera lista di rimedi? Non è certo questo il modo di lavorare su un paziente a tutti i livelli, ma soltanto sul piano della mera fisicità e talvolta, necessariamente, sul piano della risposta al sintomo.
E allora riformulo la domanda, in altro modo: è Ayurveda una terapia che guarda alla remissione del sintomo? No, non lo è.
Lo voglio dire con forza, non lo è da Charaka Samhita in giù, non lo è, se fa questo è mera imitazione dell’allopatia, mascherata da differenti diagnosi, da differenti rimedi, ma è imitazione dell’allopatia, con tutto quello che ne consegue, sul piano dello stile di vita, sul piano della terapia dell’anima e della mente.
Per di più, lavorare in questo modo, produce due conseguenze, la prima che la guarigione diviene molto improbabile, o quanto meno momentanea e superficiale, al massimo si pone appunto come rimedio ad un sintomo, e questo produce poi nel tempo un senso di sfiducia nei confronti di una filosofia, che ha invece un altissimo valore e una potenzialità terapeutica come nessun altra, e secondariamente, in questo operare,  si compie un significativo danno non soltanto a quel paziente, ma a tutta l’umanità, che superata la fase della moda, diviene diffidente nei confronti di una forma terapeutica, che, di per sé, agli occidentali, appare poco chiara e talvolta quasi stregonesca.
A me, sono capitati, nel tempo, pazienti che avevano già avuto contatti con l’Ayurveda e che ne erano usciti delusi, avevano trangugiato Triphala e quant’altro, ma dopo un sollievo iniziale, tutto era tornato come prima, perché non si erano rimosse le cause che provocavano quel sintomo, cause, che, è arcinoto, non sono mai soltanto fisiche, ma soprattutto emozionali.
In secondo luogo, lavorando così, noi, come pocanzi dicevo, stiamo semplicemente imitando la medicina allopatica, con l’unica variante che invece di utilizzare un repertorio di prodotti industriali di derivazione chimica, utilizziamo prodotti a base di erbe e di minerali. Ma questo non basta, perché noi diamo al paziente la sensazione, che a questo punto è obiettivamente reale, che l’unica differenza con l’allopatia sia quella. Il che non è così, e io mi ribello a gran voce a questa idea che l’Ayurveda si distingua dall’allopatia solo per il ricorso a rimedi naturali e a suggerire una dieta piuttosto che un’altra.
Alla stessa stregua, mi chiedo di quale Ayurveda stiamo parlando quando taluni terapeuti, vedono si e no il paziente per 15 minuti ogni tanto e dopo che, alla prima visita,  hanno fatto loro compilare uno dei vari questionari disponibili, per individuare la Prakriti e quindi, sulla base di manuali oggi esistenti, individuano la terapia, che dunque ha la caratteristica di essere omologata secondo il disturbo presentato. E, mi pare evidente, che anche in questo caso si voglia a tutti i costi essere come sono i medici allopatici, anzi i medici di base.
Dei questionari, abbiamo detto, non tedio ancora i miei lettori.
Ma vale la pena di riflettere sul fatto che l’uso di queste forme di indagine ha trovato così grande sviluppo in Occidente perché l’Occidente ama i test, anche in questo caso è sufficiente andare sulla home page di portali internet per valutare quante offerte di test ci siano, per sapere a quale albero, a quale animale assomigliamo, per sapere chi è il nostro partner ideale, per sapere se siamo guerrieri o sacerdoti e così via; ecco dunque un ulteriore esempio di come ci si stia adattando ad una forma mentis che è frutto di superficialità e velocità: in poche battute l’uomo dell’Occidente vuole sapere chi è, come è, a quali rimedi ricorrere per stare bene, sempre meglio, non rinunciando a nulla, vale a dire, lavorare a più non posso per guadagnare quanto più si può, non privarsi di tutto quello che piace, cibo, alcool, fumo, droga, divertimento, eccetera.
L’Ayurveda, come la medicina allopatica, compreso la chirurgia estetica, deve imperativamente offrirgli in modo rapido i suoi antichi tesori per ottenere quanto gli serve per quel progetto di vita?
Eh no, l’Ayurveda ha un suo progetto di vita, non può essere piegata per servirne un altro! Quanto meno io penso questo.
Ecco dunque uno dei rischi fondamentali che corre l’Ayurveda, scoperta in Occidente da circa quaranta anni, con un exploit a partire dagli anni ottanta del secolo scorso, dunque vive una sua giovinezza e una necessaria immaturità, per questo dobbiamo guidarla, tutelarla dal rischio di essere omogeneizzata come tutto quello che accade in Occidente, dove tutto viene compresso, zippato, globalizzato, ovvero l’esatto contrario di ciò che è l’Ayurveda, che è l’unica delle terapie che io conosca che si rivolge ad ogni individuo, colto nella sua essenza di essere umano unico e irripetibile, nonché unità inscindibile di spirito, mente, corpo.
L’Ayurveda non può essere ridotta a una grande fabbrica di rimedi da distribuire con lo stesso principio del farmaco allopatico, non può essere considerata, perché non lo è, una medicina stricto sensu, alternativa ad un’altra. L’Ayurveda è un insegnamento, una filosofia, uno stile di vita, inteso nella sua complessità di emozioni, di mente e di spirito,  prima di essere terapia!
Occorre dunque una grande prudenza da parte di chi rincorre la medicina allopatica per avere riconoscimenti, perché l’Ayurveda non ne ha bisogno, non ha bisogno di credenziali, oltre quelle che già ha accumulato in secoli e secoli di vita.
Ci vuole prudenza prima di buttare a mare il patrimonio di cultura che ha elaborato l’idea di mente e di corpo e di spirito come unità, aspetti imprescindibili l’una dall’altra. Per questa ragione vedo con preoccupazione farsi strada l’idea che l’Ayurveda possa diventare specializzazione per medici, perché questo significa che l’Ayurveda sarà utilizzata alla stessa stregua dell’omeopatia, come alternativa al farmaco chimico, e nulla di più.
Oggi è più facile riscontrare i nuclei della filosofia ayurveda nella tradizione, peraltro recente, della medicina emozionale o della metamedicina, sono più vicini all’Ayurveda infatti autori come Dahlke, Dethlefsen, la Rainville, Schellenbaum, tanto per citarne alcuni, di quanto non lo siano alcuni testi di Ayurveda che girano in partibus occidentis, che sono un catalogo di malattie e di possibili terapie, a prescindere da chi ne sia il portatore e da quali stati d’animo o disagi della mente essi siano prodotti, e questa è un’ulteriore conseguenza della separazione così spesso marcata fra Ayurveda e Yoga, soprattutto laddove lo Yoga è di fatto diventato un modo di praticare una ginnastica dolce, appena al di là della palestra di fitness.
L’Ayurveda non può esimersi dal valutare le ragioni che alterano un Dosha, e che sono solo apparentemente fisiche: lo stress, il mangiare troppo e male, l’abuso delle proprie energie, l’abuso di sostanze o farmaci, sono frutto di desideri, di falsi bisogni, di emozioni, come l’invidia, la rabbia, la competizione sfrenata, la paura dell’inadeguatezza sociale, economica, sessuale, eccetera; sentimenti che hanno un sapore, che generano eccesso di sapori, che alterano i Dosha, semplicemente!
L’Ayurveda ha imparato nel corso di secoli a cogliere questa relazione, non si capisce perché oggi debba esprimersi in Occidente in modo diverso, tentando un impossibile adeguamento e correndo il rischio di diventare uno dei tanti sistemi che procurano benessere momentaneo e superficiale.
Innegabile che la domanda occidentale abbia prodotto un’offerta all’Occidentale, ma se non c’è un riscatto, all’Ayurveda toccherà la sorte di tutto quello che l’Occidente prende, ovvero vivere una o due stagioni inseguendo una moda più o meno effimera per essere manipolata, ridotta, adattata e infine espulsa.
Innegabile che ci siano interessi economici di non poco rilievo, intorno all’Ayurveda, così settorialmente intesa, e questo è il segnale che l’Occidente ha già vinto una battaglia, ma non ancora la guerra, se chi ha interesse per una sorte diversa dell’umanità si impegna a riportare l’Ayurveda a quello che tradizionalmente essa è nella sua essenza più profonda.
L’Ayurveda deve ritrovare orgogliosamente la sua identità, e questo passa prima di tutto dalla formazione di terapeuti e terapisti, dalla tutela della sua essenza e dalla tutela delle sue terapie, massaggio compreso, e dalla tutela del suo inscindibile rapporto con lo Yoga, e quando dico Yoga, dico, e lo sottolineo, anche meditazione.