lunedì 16 ottobre 2017

Il dono di INDRA

Al saggio Bharadvaja viene consegnato il messaggio dell’Ayurveda, che consisteva nella conoscenza di questi tre pilastri...eziologia, sintomatologia, terapia. Subito Charaka si prodiga ad aggiungere che...questi tre pilastri riguardano tanto gli individui in buona salute quanto i malati.


Da questo ventiquattresimo versetto del primo capitolo si evincono due fondamentali concetti, il primo riguarda l’eziologia, ovvero la ricerca delle cause della malattia, che precede la sintomatologia, ovvero l’analisi dei sintomi con cui una malattia si manifesta; si tratta di un importante valutazione, che verrà poi confermata nel dettaglio in più parti del testo, riguardante la manifestazione della malattia, secondo la quale i sintomi appaiono come conseguenza di una causa, che potrebbe essere attiva da tempo, prima che si manifesti in una qualche forma che diviene appunto sintomo. La conoscenza delle cause è il punto saliente del secondo concetto, quando riguardi gli individui in buona salute; infatti la conoscenza delle cause, che inducono la malattia, è fondamentale per non ammalarsi.

Se richiamiamo all’attenzione il primo dei tre valori dell’esistenza terrestre, così come l’avevano individuati i saggi, preoccupati dall’insorgenza delle malattie, il Dharma, inteso come rispetto delle regole per restare in armonia con l’ordine universale, si chiarisce ancora di più quale sia la visione dell’Ayurveda, relativamente allo stato di salute e alla malattia.

La prevenzione – il termine non è del tutto appropriato, soltanto usato qui come indicazione approssimativa – secondo questa antica lettura del mondo, è la logica conseguenza di un naturale rispetto per il mondo circostante: l’individuo è collocato in un ambiente e con quello interagisce; questa interazione coinvolge tutti gli individui e ognuno di loro ha la responsabilità di mantenersi in salute anche per consentire a tutti gli altri di restare in armonia con l’ordine universale e di conseguenza la salute dell’individuo è causa primaria per la salute di tutti.

Ho detto che prevenzione non è termine del tutto appropriato, in quanto questo termine ha assunto nella nostra cultura il senso di attuare un insieme di operazioni atte a contrastare il realizzarsi di eventi non desiderati, per cui, per esempio si pongono dei dissuasori per impedire che si transiti in un certo luogo al fine di evitare ingorghi o, come accade in tempi più recenti, aggressioni o attentati; in ambito medico si previene l’insorgenza dell’influenza nelle persone debilitate con una opportuna vaccinazione, da effettuare all’inizio della stagione, in cui quel malanno potrebbe diffondersi. Non è questo il significato da attribuire all’idea che ha l’Ayurveda di mantenersi in salute, perché non c’è bisogno di mettere in atto specifici interventi per contrastare l’insorgere della malattia, dovrebbe essere infatti sufficiente il rispetto delle regole per restare in armonia con l’ordine universale, e conseguentemente attenersi agli altri due valori dell’esistenza, Artha e Kama.

Il primo dei tre pilastri indicati da Indra diviene così l’essenziale strumento per mantenere la salute e, contestualmente, il punto di partenza per affrontare lo studio della malattia, che si completa con l’analisi dei sintomi. Infatti, è nel contestualizzare la sintomatologia e nel risalire alle cause che sono all’origine di quei sintomi, che si potrà porre in atto la terapia. Soltanto questo percorso può riguardare gli individui che hanno perso la salute e si trovano nello stato di salute. L’estensore del versetto 24 aveva pertanto ben chiaro cosa riguardasse chi era in salute e chi invece era malato; distinzione di non poco rilievo, che fa dell’Ayurveda non soltanto una medicina, e neppure non soltanto un medicina preventiva, ma è filosofia di vita.



Il versetto 24 si chiude con l’affermazione dell’eternità del dono di Indra...i tre pilastri sono eterni rivelati da Brahma fin dall’origine. L’ordine universale è contestuale alla Creazione dell’Universo, e in questo ordine si colloca anche l’Ayurveda.



giovedì 12 ottobre 2017

L'origine divina dell'AYURVEDA


Il più antico testo di medicina indiana, Charaka Samhita, che resta peraltro uno dei più antichi testi scritti al mondo[1], nonché il più antico testo di medicina in assoluto, dopo le iniziali parole, che definiscono l’ambito dell’argomento...noi tratteremo innanzitutto della durata della vita così come il maestro Atreya l’ha esposta...fa seguire la narrazione di come l’Ayurveda abbia un’origine divina, avendola trasmessa Brahma[2] a Prajapati, il Signore delle creature, il quale, a sua volta, lo trasmise agli Ashivin, i gemelli divini che erano considerati i medici degli dei, che, a loro volta, lo comunicarono a Indra[3].


Si dichiara così l’origine divina dell’Ayurveda, che sembra tuttavia rimanere appannaggio degli dei, fino a quando non accadrà, come poco dopo sarà raccontato, che gli uomini si rivolgano a Indra, il quale, a sua volta, la trasmetterà loro, tramite alcuni saggi.
In questo senso la rivelazione divina non rappresenterebbe una novità rispetto ad altri libri considerati ugualmente rivelati, come la Bibbia, il Corano, ecc., se non per il fatto che, in questo caso, sono gli uomini a chiedere l’intervento della divinità, e non è dunque la divinità che, all’origine dell’universo, entra in rapporto con la creazione dell’uomo, e nemmeno è la divinità, che, autonomamente, interviene per rivelarsi all’uomo, sotto differenti spoglie.

Sono gli uomini infatti a rivolgersi alla divinità, e questo rivolgersi ha una ragione ben precisa, come è scritto...quando sono apparse le malattie causa di molteplici ostacoli al ravvedimento degli errori, alla pratica dell’astinenza, allo studio, alla buona condotta e alla buona salute.
Si dà dunque per scontato che gli uomini fossero già apparsi sulla Terra, e che avessero avuto una loro progressiva evoluzione, e che, evidentemente, da uno stato di salute primigenio, li avesse condotti a una condizione di malattia.


Interessante leggere come venisse considerata la malattia, seguendo il racconto di Charaka, e quali conseguenze essa si riteneva producesse sia sul singolo individuo, sia sulla collettività; la buona condotta infatti non può non avere ricadute sulle relazioni interpersonali e quindi sulla salute di tutta la comunità; marginalmente è interessante anche la notazione relativamente alla malattia come impedimento allo studio, da intendersi come bisogno di conoscenza e fonte di consapevolezza, studio inteso come forma di evoluzione personale, la qual cosa sarà meglio chiarita qualche riga dopo, proseguendo nelle lettura del testo.

Alcuni saggi, considerando che gli uomini si trovavano in quelle condizioni conseguenti allo stato di malattia, si riunirono in assemblea in un luogo scelto...nei contrafforti dell’Himalaya, dove...illuminati dalla magnificenza del loro ascetismo e purificati al fuoco delle offerte, tutti presero posto per deliberare sotto i migliori auspici.
Il problema su cui preliminarmente i saggi si concentrarono, fu quello dei tre valori dell’esistenza terrestre, ovvero...il rispetto delle regole per restare in armonia con l’ordine universale – Dharma – il controllo attento nella gestione dei beni materiali – Artha – la soddisfazione che può derivare da un buon controllo dei sensi – Kama – i quali tutti e tre consentono di liberarsi dal conflitto della dualità – Moksha – .
Solo seguendo questi valori si esalta la salute, vivendo nell’assenza della malattia; la malattia, a sua volta, altera questi valori, e la salute vien sempre meno, e con essa infine viene meno la vita stessa.
Mi pare oltretutto di significativo interesse che il primo di questi valori sia quello di restare in armonia con l’ordine universale, la qual cosa fa di questo primo testo di medicina, anche il primo testo di ispirazione ecologica ed olistica; questa precisa relazione fra individuo e universo rende tutt’oggi l’Ayurveda di grande ispirazione filosofica e ideologica, e per il suo afflato profondamente spirituale, la rende quasi una forma di religione.

Partendo da questa considerazione, ovvero che il discostarsi dall’osservanza delle tre regole fosse il più grosso ostacolo per gli esseri umani nel condurre la loro vita, i saggi stabilirono di trovare un rimedio a questa condizione di malattia, e la loro meditazione indicò loro di rivolgersi a Indra, che sembrava essere il solo in grado...di svelare gli strumenti per contrastare le conseguenze di questo flagello.

Il saggio Bharadvaya si offrì di recarsi alla dimora di Indra, e quando gli fu dappresso gli rivolse questo messaggio...Signore degli dei, sono apparse delle malattie, che seminano il terrore fra gli esseri viventi; potresti tu rivelarmi il metodo efficace per disfarsene? Indra ascoltò, e, dopo aver apprezzato la potente intelligenza del saggio, gli trasmise...in poche frasi i segreti dell’Ayurveda.




[1] Sulla datazione del testo c’è un’ampia letteratura; un’interessante disanima si può leggere in Le radici dell’Ayurveda, a cura, e con un saggio, di Dominik Wujastyk, Adelphi, 2011.
[2] Brahma, nei più antichi testi vedici, è il principio assoluto che tutto precede e da cui tutto procede.
[3] Indra è la più grande divinità della religione induista, detiene il potere temporale, protettore dei popoli a lui devoti.



giovedì 5 ottobre 2017

MEDITAZIONE del PLENILUNIO della BILANCIA

La Luna, nella prima Cantica della Divina Commedia, assume prevalentemente la funzione di indicatore temporale, anche se è utilizzata da Dante attraverso il ricorso alle differenti figure mitologiche collegate alla Luna, avvalendosi di tutto il corredo della classicità pagana e della cristianità delle origini.

La prima volta in cui incontriamo la Luna nella Divina Commedia, è nel X Canto, nelle parole pronunciate da Farinata degli Uberti[1], che suonano come una profezia:

Ma non cinquanta volte fia riaccesa
La faccia de la donna che qui regge,
che tu saprai quanto quell’arte pesa[2]. 

Ecco, in questi versi non abbiamo soltanto il richiamo all’utilizzazione della Luna come misura del tempo, ma anche un richiamo al ruolo, che la Luna svolge come reggitrice dell’Inferno; in questa occasione Dante fa riferimento alla mitologia classica che identificava la Luna con Proserpina. 

Mi sono chiesto come mai Dante avesse scelto, in questa occasione, la raffigurazione del mito di Proserpina per riferirsi alla Luna e ai suoi cicli, e che, ripeto, è la prima volta in cui la Luna viene citata nell’Inferno.

Sembra che questa curiosità fino ad oggi non sia stata soddisfatta; e allora mi sono messo alla ricerca. Per comprendere, credo che bisogna risalire sia al mito di Proserpina e sia alla figura di Farinata, inserita nel contesto del Canto X.

Andiamo con ordine. Proserpina, figlia di Cerere, fu rapita da Plutone, Re degli Inferi, mentre coglieva fiori sulle rive del lago Pergusa, nei pressi di Enna. Plutone la trasportò su un cocchio trainato da quattro cavalli neri nel suo regno, dove la trasse sposa rendendola regina del suo regno, dove il Sole non entrava mai. 

La madre Cerere, disperata dopo aver pianto tutte le sue lacrime, si prostrò ai piedi di Giove, Padre degli Dei, chiedendo di liberare sua figlia da quella prigionia. Poiché Giove non voleva mettersi in urto con suo fratello Plutone, tergiversava, così Cerere furente provocò una carestia sulla terra, così che Giove chiese al fratello di restituire Proserpina alla madre, ma, prima di procedere alla liberazione egli le fece mangiare dei semi di melograno, che la resero per sempre legata a lui; si arrivò, dopo alterne vicende, alla decisione di far trascorre a Proserpina i sei mesi del periodo dall’autunno all’inverno presso il consorte, durante i quali Cerere, come se fosse in lutto, non feconda la natura ed essa quindi non dà frutto, e gli altri sei mesi presso la madre, così, costei felice, ritorna a fecondare la natura[3]

Proserpina vive per questa ragione due differenti esistenze, non sapendo più forse quale sia la sua vera dimora: quella alla luce del Sole o quella degli Inferi, o comunque vivendo ognuna con la privazione dell’altra; ognuna con una parte soltanto di affetti familiari. 

A partire dal Canto VI, Dante aveva cominciato ad affrontare le problematiche politiche della sua città e poi di sé stesso; Ciacco[4], incontrato nel girone dei golosi, avverte Dante circa l’evoluzione della lotta fra guelfi neri, capeggiati dai Donati, tra i quali militavano i familiari di sua moglie, e i guelfi bianchi, ai quali Dante per affinità di vedute politiche si era dapprima avvicinato, e con i quali poi aveva scelto di impegnarsi politicamente[5]. Dante dunque, con questa sua scelta si trovò in una situazione di conflittualità all’interno della sua stessa famiglia. Ciacco palesa a Dante l’evoluzione di questo dissidio civile, all’interno di Firenze, e che avrà profonde ripercussioni sulla vita di Dante stesso[6] perché, condannato dai Neri nel 1302, sarà costretto a mettersi sulla via dell’esilio e non tornerà mai più a Firenze[7]. In qualche modo si evidenzia dapprima una lotta intestina, che da civile si insinua all’interno della sua stessa famiglia, e poi la profezia dell’esilio, della separazione dalla casa, dalla patria e dagli affetti. 

Questo tema dell’esilio e della separazione dai propri cari si ripropone in questo Canto attraverso l’incontro con Farinata[8] nel girone degli eretici, che nello specifico sono epicurei, negatori dell’immortalità dell’anima. I pensieri di Farinata, ma non soltanto i suoi, ma anche di Cavalcante Cavalcanti[9], che all’interno dello stesso incontro fra Dante e Farinata, farà una breve, eppure intensa apparizione, sono tutti volti al mondo dei vivi, a Firenze e al partito dei ghibellini, esiliati dalla città dai guelfi. 

Il dialogo fra i due si svolge in modo appassionato, entrambi animati da una partecipazione politica alle vicende di Firenze, e in sottofondo delle vicende del conflitto che oppone Impero e Papato. Pur non essendosi mai conosciuti, in quanto appartenenti a due generazioni diverse, sembra che fra i due vi sia una comprensione particolare del dramma dell’esilio. È interessante questo spaccato che rappresenta la divisione fra mondo degli Inferi e mondo dei vivi, che fa da sottofondo all’altra separazione, quella degli esiliati. 

Qui si inserisce Farinata, con la sua profezia relativa all’esilio di Dante, che non avrà fine. Farinata, che ha appena dichiarato che a lui l’arte male appresa, ovvero che i fiorentini non abbiano imparato a interrompere la dura condanna dell’esilio, pesa ancor più della tomba rovente nella quale sconta la sua condanna, si rivolge ora a Dante con le parole profetiche, con un tono di grande compassione, che si rivela nella parola pesa. Farinata accumuna Dante nel medesimo dolore dell’esilio[10], in questo emergendo dalla dura realtà infernale, manifestando ancora un forte sentimento di umanità. 


Non è casuale allora che la Luna che qui chiama in causa Dante, sia la Luna accomunata al mito di Prosperpina. Volutamente credo che Dante utilizzi questa figura mitologica per affermare il principio del dolore dell’esistenza di chi si divide fra differenti patrie, di chi si allontana dalla propria casa, dalla propria famiglia, dalla propria patria. 

Di questo faccio oggetto di meditazione in questo incontro. 




[1] Farinata degli Uberti, (Firenze, 1212 circa – Firenze, 11 novembre 1264), è stato un nobile ghibellino, ovvero sostenitore dell’impero, appartenente a una tra le famiglie fiorentine più antiche e importanti. Così lo ricorda Giovanni Villani, nella sua Cronaca: E nel detto parlamento tutte le città vicine, e’ conti Guidi, e’ conti Alberti, e que’ da Santafiore, e gli Ubaldini, e tutti i baroni d’intorno proposono e furono in concordia per lo migliore di parte ghibellina, di disfare al tutto la città di Firenze, e di recarla a borgora, acciocché mai di suo stato non fosse rinomo, fama, né podere. Alla quale proposta si levò e contradisse il valente e savio cavaliere messer Farinata degli liberti e nella sua diceria propose gli antichi due grossi proverbi che dicono: com’ sino sape, così minuzza rape; e vassi capra zoppa, se ‘I lupo non la ‘ntoppa: e questi due proverbi rimesti in uno, dicendo: com’asino sape, si va capra zoppa; così minuzza rape, se ‘I lupo non la ‘ntoppa; recando poi con savie parole esempio e comparazioni sopra il grosso proverbio, com’era follia di ciò parlare, e come gran pericolo e danno ne potea avvenire, e s’altri ch’egli non fosse, mentre ch’egli avesse vita in corpo, colla spada in mano la difenderebbe. Veggendo ciò il conte Giordano, e l’uomo, e dell’autoritade ch’era messer Farinata, e il suo gran seguito, e come parte ghibellina se ne potea partire, e avere discordia, sì si rimase, e intesono ad altro; sicché per uno buono uomo cittadino scampò la nostra città di Firenze da tanta furia, distruggimento, mina. Ma poi il detto popolo di Firenze ne fu ingrato, male conoscente contra il detto messer Farinata, e sua progenia e lignaggio, come innanzi faremo menzione. (Giovanni Villani – Nuova Cronica, Libro VI, Capitolo LXXXI) 
[2] Dante, Divina Commedia, Inferno, Canto X, vv. 79-81. 
[3] Il mito di Proserpina trova riscontro presso molti scrittori latini, a partire da Cicerone e Strabone e fino a Claudiano; il racconto poetico del rapimento si può leggere nelle Metamorfosi di Ovidio, V, vv. 341-461, sebbene inframmezzato da alcune altre narrazioni; mentre il racconto più dettagliato di tutta la vicenda si può leggere in C. Claudiano, De raptu Proserpinae: Plutone, dio degli inferi, stanco delle tenebre del suo regno, decise un giorno di affiorare alla luce e vedere un po’ di questo mondo…Dopo un lungo e faticoso cammino emerse infine su una pianura bellissima, posta a mezza costa del monte Enna. Era Pergusa, dal lago ceruleo, alimentato da ruscelli armoniosi e illeggiadriti da fiori di tante varietà che mischiando i profumi creavano soavi odori e così intensi da inebriare…Ad un tratto, volgendo lo sguardo, scorse in un prato un gruppo di fanciulle che coglievano fiori con movenze leggere, fiori tra i fiori…[Plutone] si precipitò verso di lei [Proserpina], che, scortolo, così nero e gigantesco, con quegli occhi di fuoco e le mani protese ad artigliarla, fu colta dal terrore e fuggì leggera assieme alle compagne…Il dio dell’Ade, in due falcate le fu addosso e l’abbracciò voracemente e via col dolce peso; la pose sul cocchio, invano ostacolato da una giovinetta, Ciane, compagna di Proserpina, che tentò di fermare i cavalli, ché il dio infuriato la trasformò in fonte. Ancora oggi Ciane, con i suoi papiri, porta le sue limpide acque a Siracusa…Dopo nove giorni e nove notti insonni di dolore, decise di rivolgersi a Giove per impetrarlo di farle riavere la figlia; ma Giove nicchiava, infatti come avrebbe potuto tradire suo fratello Plutone? Allora Cerere, folle di dolore, decise di provocare una grande siccità in tutta la terra. E dopo la siccità venne la carestia e gli uomini e le bestie morivano in grande quantità. Non valevano invocazioni e scongiuri alla dea, che era irremovibile. Giove inviò Mercurio da Plutone per imporgli di restituire Proserpina alla madre. A Plutone non restò che obbedire. Però, prima di farla partire, fece mangiare alla sua amata dei chicchi di melograno. 
[4] Ciacco è un personaggio letterario, citato da Dante Alighieri nell’Inferno tra i golosi (Canto VI, vv. 34-75) e anche da Giovanni Boccaccio in una novella del Decamerone. La sua figura non è ancora stata individuata storicamente. Voi cittadini mi chiamaste Ciacco: così questo personaggio si presenta a Dante e Virgilio nel VI Canto. Ciacco è un sostantivo al quale si attribuiva normalmente il significato di “porco”; ma Ciacco era semplicemente da intendere come il diminutivo dei nomi Jacopo e Giacomo. Non sappiamo quale dei due significati abbia voluto intendere Dante, ma è probabile che intendesse entrambe le interpretazioni come valide. 
[5] Quando Dante aveva dodici anni, nel 1277, fu concordato il suo matrimonio con Gemma, figlia di Messer Manetto Donati, che successivamente sposò all’età di vent’anni nel 1285. Contrarre matrimoni in età così precoce era abbastanza comune a quell’epoca; lo si faceva con una cerimonia importante, che richiedeva atti formali sottoscritti davanti a un notaio. La famiglia a cui Gemma apparteneva – i Donati – era una delle più importanti nella Firenze tardo-medievale e in seguito divenne il punto di riferimento per lo schieramento politico opposto a quello del poeta, vale a dire i guelfi neri. Poco dopo il matrimonio, Dante cominciò a partecipare come cavaliere ad alcune campagne militari che Firenze stava conducendo contro i suoi nemici esterni, tra cui Arezzo (battaglia di Campaldino dell’11 giugno 1289) e Pisa (presa di Caprona, 16 agosto 1289). Successivamente, nel 1294, avrebbe fatto parte della delegazione di cavalieri che scortò Carlo Martello d’Angiò (figlio di Carlo II d’Angiò) quando questi si trovava a Firenze. L’attività politica prese Dante a partire dai primi anni 1290, in un periodo quanto mai convulso per la Repubblica. Nel 1293 entrarono in vigore gli Ordinamenti di Giustizia di Giano Della Bella, che escludevano l’antica nobiltà dalla politica e permettevano al ceto borghese di ottenere ruoli nella Repubblica, purché iscritti a un’Arte. Dante, in quanto nobile, fu escluso dalla politica cittadina fino al 6 luglio del 1295, quando furono promulgati i Temperamenti, leggi che ridiedero diritto ai nobili di rivestire ruoli istituzionali, purché si immatricolassero alle Arti. Dante, pertanto, si iscrisse all’Arte dei Medici e Speziali. L’esatta serie dei suoi incarichi politici non è conosciuta, poiché i verbali delle assemblee sono andati perduti. Comunque, attraverso altre fonti, si è potuta ricostruire buona parte della sua attività: fu nel Consiglio del popolo dal novembre 1295 all’aprile 1296; fu nel gruppo dei “Savi”, che nel dicembre 1296 rinnovarono le norme per l’elezione dei priori, i massimi rappresentanti di ciascuna Arte che avrebbero occupato, per un bimestre, il ruolo istituzionale più importante della Repubblica; dal maggio al dicembre del 1296 fece parte del Consiglio dei Cento. Fu inviato talvolta nella veste di ambasciatore, come nel maggio del 1300 a San Gimignano. Nel frattempo, all’interno del partito guelfo fiorentino si produsse una frattura gravissima tra il gruppo capeggiato dai Donati, fautori di una politica conservatrice e aristocratica (guelfi neri), e quello invece fautore di una politica moderatamente popolare (guelfi bianchi), capeggiato dalla famiglia Cerchi. La scissione, dovuta anche a motivi di carattere politico ed economico (i Donati, esponenti dell’antica nobiltà, erano stati surclassati in potenza dai Cerchi, considerati dai primi dei parvenu), generò una guerra intestina cui Dante non si sottrasse schierandosi, moderatamente, dalla parte dei guelfi bianchi. 
[6] Dante, Divina Commedia, Inferno, Canto VI, vv. 49-75. 
[7] “Alighieri Dante è condannato per baratteria, frode, falsità, dolo, malizia, inique pratiche estortive, proventi illeciti, pederastia, e lo si condanna a 5000 fiorini di multa, interdizione perpetua dai pubblici uffici, esilio perpetuo (in contumacia), e se lo si prende, al rogo, così che muoia”. (Libro del chiodo – Archivio di Stato di Firenze – 10 marzo 1302) 
[8] Sulla figura di Farinata degli Uberti nell’Inferno vi è una ricca bibliografia, segnalo qui gli ultimi lavori pubblicati: Vittorio Sermonti, Inferno, Rizzoli 2001, e Umberto Bosco e Giovanni Reggio, La Divina Commedia – Inferno, Le Monnier 1988. 
[9] Cavalcante de' Cavalcanti (1220 circa – 1280 circa) è stato un filosofo epicureo italiano vissuto nel tardo Medioevo, padre di Guido Cavalcanti (Firenze, intorno al 1258 – Firenze, 29 agosto 1300). Egli si solleva dalla tomba per chiedere se suo figlio è ancora vivo con un verso di altissima sensibilità: “non fiere gli occhi suoi lo dolce lume?”; esitando Dante a rispondere, ricadde nella tomba senz’altro aggiungere “supin ricadde e più non parve fora”. (Inferno, Canto X, vv. 58-69) 
[10] Credo che solo Ernesto Giacomo Parodi (Genova, 21 novembre 1862 – Firenze, 31 gennaio 1923) si sia soffermato sull’aspetto compassionevole di Farinata nei confronti di Dante. Cfr. Parodi E. G., L’ideale politico di Dante, in Dante e l’Italia, Roma 1921, pp. 75-135.