giovedì 2 novembre 2017

La Luna Piena nel Canto XX dell’Inferno

Nel Canto XX dell’Inferno, Dante situa la quarta bolgia, dove mette in scena veggenti, indovini, maghi e streghe.






















Chiesa di Santa Maria Novella, Cappellone degli Spagnoli, affresco di Andrea di Bonaiuto, Firenze, Italia [1].

Un Canto complesso, che vede sfilare una sequenza di personaggi, e che si chiuderà con l’apparizione della Luna piena, presentata questa volta sotto la simbologia di Caino.


Canto molto discusso dalla critica, per più di un motivo, fra cui due presunte inesattezze che Dante avrebbe commesso, e per la sua utilizzazione strumentale da parte di quanti ne vedono la condanna di tutto quello che appartiene alla sfera del non razionale, facendo mostra di non comprendere che tutta la Divina Commedia si sviluppa tanto sul piano razionale didattico, quanto su quello esoterico.


Il Canto riguarda quelli che avrebbero preteso di guardare avanti, come i veggenti o gli indovini e quelli che avrebbero utilizzato queste conoscenze per finalità malefiche. A costoro Dante infligge la pena del contrappasso di muoversi come partecipassero ad una lenta processione con il volto totalmente girato all’indietro…


E vidi gente per lo vallon tondo
Venir, tacendo e lacrimando, al passo
Che fanno le letane in questo mondo.
Come 'l viso mi scese in lor più basso,
mirabilmente apparve esser travolto
ciascun tra 'l mento e 'l principio del casso.
vv 7-13
E vidi una folla che avanzava nella gran valle circolare. Silenziosa e piangente, al ritmo delle processioni nel nostro mondo. 
Quando il mio sguardo scese più in basso su di loro, ognuno mi apparve essere rivolto mostruosamente all’indietro tra il mento e l’inizio del cazzo.


Silenti e voltati indietro perché hanno parlato troppo e troppo hanno guardato avanti, sembra essere questa una punizione esemplare, eppure Dante prova per loro infinita pietà nel vedere come il corpo, creato ad immagine di Dio, sia così stravolto tanto che le lagrime dei dannati scendono fra le natiche, e lui stesso, a tale vista, viene preso da pietà e commozione, così che si mette a piangere suscitando la dura reazione di Virgilio, il quale lo rampogna in quanto non può esserci pietà laddove si esprime il giudizio divino.



Per confortare il suo rimprovero, Virgilio esorta Dante a guardare la schiera di peccatori e comincia a indicargli inizialmente alcuni personaggi del mondo classico che ebbero il torto di guardare oltre, di scrutare il cielo per dedurne segni da utilizzare per tentare di modificare il corso degli eventi o, ancor peggio, di influenzare le persone con le loro visioni. In questo contesto Virgilio coglie l’occasione di raccontare le origini della sua città natale, Mantova. Quindi il Canto volge rapidamente al termine con la presentazione di alcuni indovini dell’età contemporanea a Dante, Michele Scoto e Guido Bonatti, ambedue consigliere dell’Imperatore Federico II, e Virgilio indica su un gruppo di donne...


Vedi le triste, che lasciaron l'ago,
la spola e i'l fuso, e fecersi 'ndovine;
fecer malie con erbe e con imago.
vv 121-123

Canto controverso, dove manca una figura potente di riferimento, e ad occupare la scena, è Virgilio con il racconto delle origini della sua città, ma che è stato soprattutto interpretato come una condanna dell’astrologia e della preveggenza, pur con diversi giudizi critici.

In realtà Dante in questo Canto, che dalla critica cristiana, passando dall’illuminismo fino al Novecento, ha voluto vedervi una condanna degli indovini e dell’astrologia, non fa questo. Dante piuttosto indica persone che hanno praticato queste arti per finalità non buone.

A partire dal primo di questi personaggi, Anfiarao, che avendo avuto la visione della sua morte all’assedio di Tebe, cercò di sottrarsi al suo impegno militare, ma comunque poi partecipò e trovò la morte, passando da Tiresia che viene mutato in donna non per le sue profezie, ma piuttosto perché aveva percosso con un bastone due serpenti che amoreggiavano e poi mutato nuovamente in uomo, quando percosse ancora due serpenti nel medesimo atteggiamento, e fino a Michele Scoto che utilizzò le sue conoscenze per frode, Dante non accenna mai all’arte della divinazione o dell’astrologia, ed anche nella visione delle donne che abbandonano il loro ruolo di casalinghe, c’è la condanna per l’aspetto magico malvagio.

Nella chiusa, dove si fa riferimento alla Luna piena, Virgilio indica un aiuto che la luna avrebbe dato a Dante nel momento della sua perdizione e dell’inizio del suo viaggio, dove invece non c’è traccia di questo. La critica si è espressa variamente su questa svista, offrendo molteplici interpretazioni. Appare tuttavia non casuale che in un Canto dedicato a chi ha frodato con le conoscenze, infine si cada in una banale svista, a meno di non pensare alla misericordiosa interpretazione dell’uomo e dei suoi limiti.

Porto questo Canto, per questa meditazione del Plenilunio, perché non si cada nell’equivoco di fare, come si suol dire, di un erba un fascio, ovvero che non si può condannare un’arte perché qualcuno di quelli che la professano, ne fa uso improprio, altrimenti lo stesso potrebbe valere per tutte le altre professioni. Dante condanna l’inganno, la frode, l’uso malvagio, che si può fare utilizzando una conoscenza.




[1] All’interno del Cappellone degli Spagnoli di Santa Maria Novella, precisamente nella parete in cui vi è il “Trionfo di San Tommaso”. Nell’affresco, partendo dall’alto si hanno le sette virtù, suddivise nelle tre teologali, Fede, Speranza, Carità, e nelle quattro cardinali, Prudenza, Temperanza, Giustizia e Fortezza, simboleggiate da angeli di vario colore. A destra e a sinistra di San Tommaso si trovano i quattro evangelisti con San Paolo, che espressamente dichiara di predicare un suo vangelo, e a sinistra cinque personaggi dell’Antico Testamento, tra i quali si nota Mosè con Giobbe, David, Salomone e Isaia. Nel registro inferiore si trovano quattordici stalli decorati, nei quali siedono le personificazioni muliebri delle sacre scienze (a sinistra) e delle arti liberali (a destra), ai piedi di ciascuna delle quali si trova un illustre rappresentante. Ciascuna di esse è protetta da un pianeta, secondo una tradizione pitagorica ripresa nel medioevo da Michele Scoto, san Tommaso d’Aquino e Dante.


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