martedì 28 marzo 2017

Che fai tu, luna, in ciel?


Nel 1828, Leopardi annotava nel suo diario, lo Zibaldone, una recensione di un volume di un autore russo, il barone Meyendorff, Voyage d’Orembourg à Boukhara, fait en 1820, pubblicato in lingua francese nel 1926, il quale resoconta fra l’altro di un suo viaggio presso i Kirghisi[1], ed era rimasto molto colpito da un’abitudine di vita degli uomini di questo popolo, scrivendo fra l’altro, come testualmente riposta Leopardi, Plusieurs d’entre eux…passent la nuit assis sur une pierre à regarder la lune, et à improviser des paroles assez triste sur des aires qui ne le sont pas moins…(Molti di loro passano la notte seduti su una roccia improvvisando versi molto tristi accompagnandosi con musiche che sono altrettanto tristi).

Non che questa lettura abbia indotto Leopardi a scrivere l’ultimo degli Idilli, il Canto Notturno di un pastore errante dell’Asia, ma probabilmente fu uno stimolo in più che lo spinse a definire in forma poetica le sue riflessioni sul senso della vita.

Per quel che ci riguarda, in questo ciclo di meditazioni del Plenilunio, che ho voluto dedicare al rapporto fra l’uomo e la Luna, è l’aver saputo cogliere da parte del grande poeta, questa istanza dell’Uomo nel corso della storia; Leopardi ponendosi davanti alla Luna con un senso di infinita contemplazione, che è anche contemplazione dell’Infinito, percepisce il suo limite, il limite dell’Uomo: l’immagine della Luna lo pone nella condizione di cogliere la contrapposizione fra Infinito e finito, e di dar voce all’Uomo, che, pur percependosi parte dell’Infinito, percepisce anche il suo essere limitato, finito, nello Spazio e nel Tempo.

L’esordio dell’Idillio contiene la domanda che l’uomo nel Tempo si è posto: che fai tu, luna, in ciel? 

Che fai tu, luna, in ciel? dimmi, che fai,
Silenziosa luna?

Che cosa rappresenta, quale il senso di questo volgere costante della Luna, la sua mutevolezza e la sua perenne ripetitività; che cosa vuol comunicare nel suo splendente silenzio, nel suo riproporsi allo sguardo interrogante di chi muta insieme a lei e non si ripete come lei? Nel suo costante ritornare la Luna segna il Tempo che fugge, il tempo che inesorabilmente a chi è nato rappresenta il volgere verso la morte.

Sorgi la sera, e vai,
Contemplando i deserti; indi ti posi.

Potere di una virgola: Leopardi non scrive vai contemplando, ma pone una virgola di alto significato vai, contemplando i deserti, e ti posi; ovvero vai e ti posi, un andare continuo, e in questo andare avviene la contemplazione; due azioni distinte, l’andare, aspetto di una fisicità ineludibile, e il contemplare, aspetto dell’emotività che si esprime in una distaccata contemplazione, che non diventa né partecipazione alla sorte degli umani, né fornisce alcuna spiegazione al senso della vita; la Luna resta contemplativa e indifferente, non così gli uomini che contemplandola sentono al contrario ribollire in sé domande alle quali apparentemente non ci sono risposte.

L’andare dal sorgere al posarsi, contemplando i deserti, diviene metafora del deserto in cui l’umanità si muove, metafora di tutti i deserti, fisici e morali, che la Luna contempla, con un gioco di rimandi fra l’uomo che la vede e la Luna che contempla, fra l’uomo partecipe e la Luna indifferente. Sembra qui Leopardi attribuire alla Luna una sorta di umana dolenzia o una malinconia peraltro priva di partecipazione, una contemplazione che non assurge a compassione, che in qualche modo riecheggia in un altro grandissimo poema, I Canti di Ossian[2], che Leopardi possedeva in biblioteca, e dove si legge, nel VI Canto, Dartula

Ma dimmi, o bella Luce, ove t’ascondi, lasciando il corso tuo, quando svanisce la tua candida faccia?

Eterne interrogazioni dell’uomo difronte a questo astro, aldilà del Tempo e dello Spazio.

E dunque ne consegue la constatazione chiave di tutto il Poema leopardiano, ma chiave dell’esistenza umana, la domanda che costantemente ci accompagna:

Somiglia alla tua vita
La vita del pastore

Laddove Pastore è ancora un’altra metafora, pastore delle greggi, è espressione biblica ed evangelica, i Pastori sono quanti conducono le loro greggi verso un fine della vita, che indicano la via, la meta, il senso infine al quale l’Uomo tende, come subito dopo il poeta esplica

Dimmi, o luna: a che vale
Al pastor la sua vita,

Ecco la domanda chiave dell’esistenza umana, che ci stiamo a fare, che valore ha la vita, quale il senso. E Leopardi con un balzo pindarico, ricentra dal generico al singolo, al suo esistere personale che è tuttavia emblematica raffigurazione dell’individuo in cammino e in costane ricerca

...ove tende
Questo vagar mio breve,
Il tuo corso immortale?

Netta la contrapposizione fra l’Eterno, e breve vagar.

In dieci parole Leopardi sintetizza l’inquietudine dell’Uomo, percezione della sua finitezza, la costante ricerca di senso della vita. E se ciò non bastasse dopo aver descritto la penosa vita dell’uomo, che non ha apparentemente altra finalità che la morte, esplicita l’altra dolorosa affermazione

Vergine luna, tale
È la vita mortale.

La contrapposizione storica dell’uomo mortale con l’Eternità, l’immortalità, o almeno ciò che a noi appare che sia, della finitezza con l’Infinito, del particolare con l’Assoluto, del mutevole che si deteriora che nasce vive e muore, con l’immutabile che pur mutando resta sempre uguale, o almeno appare a chi nella brevità della vita non può cogliere le mutevolezze che pure appartengono all’Infinito.

La Luna e il suo fascino, la sua malinconia, il senso della vita che trascorre, quante osservazioni ed emozioni sollecita la Luna; ma da tutte queste ne traggo una: l’universalità del sentire, dai pastori Kirghisi, al canto scozzese, al poeta italiano.

L’universalità del sentire e del sentire comune la finitezza dell’Uomo difronte all’Universo, all’Assoluto.

Da questo ha tratto ispirazione Alice Bailey, per sollecitare gli uomini a fermarsi un momento, nel giorno in cui la Luna è massimamente  presente, per armonizzarsi tutti insieme nel corso della giornata sui grandi valori dell’Umanità, con una preghiera che travalica ogni religione, che è al di là delle distinzioni filosofiche e intellettuali, che è soltanto voce dell’uomo, difronte al mistero della vita, voce dell’Uomo che prima di ogni altra cosa accetta la sua finitezza ma anche la sua forza, ciò che non può, ma anche ciò che può fare.




[1]I Kirghisi (Kyrgyz, Kirghiz; in italiano anche Chirghisi) sono un gruppo etnico di origine turca che vive principalmente in Kirghizistan (dove sono l’etnia principale, con 3.350.000 persone di origine chirghisa). Piccoli gruppi di Chirghisi si trovano anche in Cina, Uzbekistan, Tagikistan, Russia, Kazakistan e Ucraina.

[2]I Canti di Ossian sono un’opera, in forma di raccolta di poemi, dello scrittore scozzese James Macpherson (Ruthven, 27 ottobre 1736 – Belville, 17 febbraio 1796). L’opera fu pubblicata per la prima volta nel 1760 e conteneva antichi canti gaelici, tradotti dal Macpherson, che li attribuiva ad un leggendario cantore bardo chiamato Ossian, subito ridefinito come “l’Omero del Nord”. Si tratta in realtà di un’abile rielaborazione di antichi canti popolari, inseriti in una struttura poetica inedita ed originale, che preannuncia la grande svolta letteraria del Romanticismo. L’autore rimaneggiò l’opera con continue aggiunte fino all’edizione del 1773. L’opera fu tradotta in italiano dallo scrittore Melchiorre Cesarotti (Padova, 15 maggio 1730 – Padova, 4 novembre 1808) nel 1763 e ne diede infine una traduzione definitiva nel 1772.

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